Oltre le barriere dell’animo umano
Il 23 febbraio le sale italiane accoglieranno Barriere, terzo lungometraggio di Denzel Washington che qui interpreta anche il ruolo del protagonista.
Questi è Troy Maxson, un netturbino della Pittsburgh degli anni ’50 alle prese con le proprie battaglie, quelle sociali e quelle interiori.
Ha una moglie con la quale è sposato da 18 anni, Rose (Viola Davis); un amico fraterno che conosce persino da più tempo e con il quale ha condiviso gioie e dolori, e poi ha due figli, Lyons e Cory, ma il primo è frutto di una relazione precedente.
Denzel Washington mira a coinvolgere lo spettatore a 360 gradi, e ci riesce perfettamente.
La sequenza d’apertura è, in tal senso, più che mai emblematica. Una discussione lunghissima fuori casa di Maxson, tra Troy, sua moglie ed il suo amico Bono, sviluppata a colpi di ricordi, battute e tematiche altalenanti, tutto realizzato con lo scopo di farci entrare nella sua dimora, di diventare non ospiti di casa Maxson ma dei coinquilini silenziosi.
L’intero film in effetti è svolto quasi del tutto tra le mura dell’abitazione e il cortile, contribuendo così ad evidenziare il senso di appartenenza e i valori che un tempo alcune comunità coltivavano, soprattutto in quartieri pressoché popolari come quello di Pittsburgh in cui vive Troy Maxson insieme alla sua famiglia.
Ma la sua vita non è così semplice, e non manca di farcelo notare. L’infanzia difficile ed un’adolescenza ancor più complicata hanno lasciato sul nostro protagonista dei segni indelebili, che – come per tutti – incidono fortemente sulla sua personalità.
Maxson è un padre padrone, che combatte quotidianamente tra il desiderio che suo figlio minore Cory segua le orme e la razionalità che lo spinge a trascinarlo fuori dalla sua ombra, evitando in ogni modo e con ogni mezzo che commetta quelli che lui reputa siano gli stessi suoi “sbagli”.
Dal canto suo Cory lotta, internamente, proseguendo in direzione opposta. Sa quello che vuole, e non accetta che il padre scelga il suo futuro per lui.
Il rapporto padre-figlio, che viene analizzato da Washington anche in maniera diversa affrontando la situazione del figlio più grande, è solo uno dei luoghi oscuri di questa pellicola, e scivola come olio in una tanica di benzina, restando sospeso, aumentando la densità di un’opera assai corposa, ma che non mescola nessuno dei temi che sceglie di trattare, bensì riesce a separarli pure quando ce li vomita tutti insieme scombussolando la nostra visione.
Troy è un personaggio diviso tra coerenza ed incoerenza, che pone uno schermo davanti alla sua coscienza e che forse per via di tutto ciò che ha passato nella vita non riesce a rinunciare a godersela. Questo lo rende sospeso tra due realtà perché al tempo stesso si occupa della famiglia, costruisce il recinto nel giardino con lo scopo di chiudersi all’interno del nucleo senza doverne uscire o fare uscire qualcuno, eppure oltre questa maschera di uomo tutto d’un pezzo attaccato ai valori massimi, esiste lo spirito di un eterno immaturo, che non sa rinunciare a ciò che lo fa “star bene”.
Quello che per Troy Maxson è dunque un indispensabile aspetto della sua vita, si trasforma nel dramma che colpisce la sua famiglia come un fulmine a ciel sereno.
C’è un momento in cui si percepisce nettamente il cambio di rotta del regista e dell’opera stessa. Barriere cresce vertiginosamente intorno a metà film, nel dialogo serrato tra Troy e Rose, e lo sfogo della donna è lo stesso dello spettatore.
Per tutto il resto del tempo, il film risulta comunque piuttosto piacevole in proporzione alla già citata densità dei contenuti e soprattutto alla sua forma.
Tenete presente che Barriere è tratto dall’opera teatrale Fences (titolo originale del film, appunto), del compianto August Wilson, che risale al 1983 e vanta il Pulitzer per la drammaturgia.
I dialoghi mantengono appunto l’impronta di un prodotto fortemente legato al palcoscenico, ma l’abilità di Denzel Washington è sublime nel saperlo trasporre elegantemente sul grande schermo, senza appesantirlo più del dovuto. Tuttavia è doveroso segnalare come, nonostante la lunghezza dei sovracitati dialoghi sia spesso congeniale a far entrare lo spettatore nel vivo del dramma, spesso (anzi sempre) si abusa della sua pazienza e si calca la mano.
Washington è un maestro del monologo, e lo staremmo ad ascoltare per ore, eppure siamo certi che eliminando un solo minuto da ogni discussione avremmo avuto a che fare con un film dalla durata accettabile.
Resta un difettuccio, considerando che – come ampiamente detto – tali dialoghi non portano mai allo sbadiglio, ma qualche limatura si poteva pur fare.
In tutto questo emerge una fotografia straordinaria, che riesce a venir fuori persino in un contesto schivo come quello di un film in cui l’ambiente casalingo è quasi l’unico ed il solo. In quei rari momenti in cui l’occhio del regista va a pescare fuori dalle quattro mura, l’obiettivo lascia il segno in maniera indiscutibile.
Infine gli attori, tutti eccezionali, a partire dai protagonisti che dimostrano di meritare assolutamente le rispettive nomination, accreditandosi non come outsider ma seri candidati agli Oscar.
Molto presto scopriremo se alzeranno al cielo la statuetta, ma intanto accontentiamoci di assistere ad un’opera che pur senza essere perfetta è comunque un’esperienza da dover fare.
Conclusioni:
Denzel Washington realizza un film denso e complesso, dove forti contenuti valicano le “barriere” di dialoghi fitti come siepi. La famiglia, il complicato rapporto padre-figlio e quello particolare con la moglie, tracciano l’esistenza di un’individuo sospeso tra i valori massimi ed il desiderio di soddisfare il proprio benessere oltre ogni impedimento.
Forse i dialoghi sono troppo lunghi, serrati e prolissi ma, tenendo presente che si tratta di un’adattamento da un’opera teatrale, la regia di D.Washington è assolutamente ammirabile e riuscita, seppur qualche limatura avrebbe snellito l’intero lavoro senza intaccarne le densità.