Giocare sul futuro dei figli, da Battle Royale ai Fridays for Future
Pubblicato in Giappone nel 1999 e da noi con uno scarto di dieci anni, nel 2009, da Mondadori, Battle Royale non è solo un romanzo ma, nella migliore tradizione transmediale nipponica, un vero e proprio franchise che declina la sua storia oltre il formato libro, nei quindici volumi del manga, arrivati in Italia prima ancora del romanzo, e nell’omonimo film del 2000, per poi svilupparsi ulteriormente su questi ultimi due supporti nel sequel a fumetti in due volumi Battle Royale II – Blitz Royale e nel film Battle Royale: Requiem, in cui Takami riallaccia il destino del programma a quello dei due protagonisti del primo romanzo.
Divisi siamo persi
Anche se considerata generalmente una distopia – termine ombrello che sembra ormai racchiudere tutto quello che non è fantascienza ma non è neanche realismo -, Battle Royale si presenta come un’ucronia: nel libro infatti il Giappone, dopo la vittoria durante la seconda guerra mondiale, si trasforma in una dittatura nazionalsocialista conosciuta con il nome di Repubblica della Grande Asia dell’Est che mantiene la stabilità del potere sul popolo, come ogni fascismo, creando divisioni e minando il senso di sicurezza dei suoi cittadini. Nonostante le fandonie del governo sul senso del Programma (dall’Enciclopedia Compatta della Repubblica della Grande Asia dell’Est: “Esperimento di simulazione di combattimento diretto dall’esercito di Difesa terrestre nella nostra nazione, istituito per ragioni di sicurezza”), appare chiaro con il proseguire del gioco che il sacrificio di quasi duemila giovani l’anno non sia niente più di un ennesimo strumento di oppressione che fa leva sulla mancanza di fiducia negli altri per scoraggiare una ribellione organizzata in grado di soverchiare l’ordine costituito: se Hunger Games, di Suzanne Collins, fa suo il concetto di panem et circenses – costruendo in maniera molto americana un vero e proprio show televisivo attorno all’assassinio programmato dei figli della patria – il motto della Repubblica della Grande Asia dell’Est non può che essere divide et impera.
Proprio in questa concezione della sottomissione e della rassegnazione della totalità dei padri e delle madri della Repubblica, destinati a vedersi strappare dalle braccia i figli, risiede lo spirito della nazione: “è meglio obbedire che opporsi. Anche se tutti la pensassero diversamente, nessuno potrebbe dirlo ad alta voce. È per questo che non cambia niente. Ci sono molte cose storte in questo paese, Il meccanismo che le regola è uno solo… il fascismo.” Ed è così, infine, che muore la democrazia: non sotto scroscianti applausi, ma nel silenzio di chi tace per troppa paura.
Ogni isola ha la sua Battle Royale
Il tema della paranoia e delle estreme conseguenze dell’hobbesiano homo homini lupus non sono nuove alla narrativa: come tutti gli archetipi che si rispettino, esiste un fil rouge che collega opere distanti per stile, ma non per tematica. Senza voler risalire troppo le impetuose rapide del fiume del tempo, partiamo da una data ben precisa: il 26 giugno 1948, sul New Yorker, viene pubblicato una breve storia dal titolo La lotteria; l’autrice si chiama Shirley Jackson e poco più di dieci anni dopo pubblicherà il suo romanzo più famoso, L’incubo di Hill House. Il racconto, che ha in qualche modo scatenato lo stesso ventaglio di reazioni della trasmissione radiofonica di Welles dedicata a La guerra dei mondi del 1938, descrive la lotteria annuale di un paese. La peculiarità? Il fortunato vincitore verrà lapidato a morte, per assicurare alla comunità un raccolto abbondante. Il capro espiatorio, la vittima sacrificale scelta a caso nel mucchio, viene immolata per il bene comune, come i ragazzini delle scuole medie della Repubblica della Grande Asia dell’Est, dipinti come eroi della patria, quando sono in realtà martiri.
Un altro elemento che ritroviamo in Battle Royale, la lotta tra pari in un mondo senza adulti, fa da colonna portante al libro del 1954, di William Golding, Il signore delle mosche. Mentre nel romanzo di Koshun Takami la società è conscia dell’esistenza del Programma, e una volta raggiunta l’isola i ragazzi sanno bene quale destino li attende, i naufraghi di Golding – sopravvissuti a un incidente aereo in cui sono morti tutti gli adulti – si ritrovano a combattere l’uno contro l’altro spinti dalla casualità dell’incidente che li ha visti coinvolti, mossi dalla paura e dalla diffidenza.
L’inconsapevolezza dei ragazzi de Il signore delle mosche – una storia raccontata solo a noi lettori – si trasforma in Battle Royale in una cronaca degli eventi: più del Programma in sé, infatti, è importante che i telegiornali della nazione ne riportino notizia, cosicché nessun cittadino resti all’oscuro della carneficina messa in atto ai danni dei tanti figli della Repubblica. Questa meta-narrazione raggiunge il suo apice nella trilogia di Suzanne Collins – ormai diventato un long-seller, tanto che Mondadori ha appena annunciato un nuovo restyling delle copertine per celebrare i cinque anni dalla pubblicazione del capitolo finale, Il canto della rivolta – dedicata alle battaglie di Katniss Everdeen dentro e fuori dall’arena dei Giochi: i tributi dei vari distretti hanno dalla loro parte una preparazione e una premeditazione che mancano agli alunni della Classe terza B della scuola media di Shiroiwa, provincia di Kagawa.
Chi vincerà questa ultima Battle Royale?
Dal punto di vista dell’intrattenimento, questi meccanismi narrativi alla 10 piccoli indiani, in cui non rimane più nessuno, sono altamente coinvolgenti e ancora oggi leggere le oltre seicento pagine di libro di Battle Royale è una piacevole piccola maratona (non provate a centellinare la lettura a meno che non siate bravissimi a ricordarvi una trentina di nomi e cognomi), ma una domanda continua ad accompagnare ogni pagina che viene voltata: quale società può essere così disumanamente atroce da uccidere i propri figli?
La risposta più ponderata e realista che viene in mente, al momento, è: la nostra.
La società capitalista occidentale, l’unica che gran parte di noi abbia mai conosciuto, sta silenziosamente e lentamente assassinando le generazioni future senza neanche il bisogno di istituire programmi o show televisivi dedicati. Basta infatti che la classe dirigente di tutto il mondo – quella classe dirigente colpevole di averci rubato il futuro prostituendo la dignità del lavoro e del salario al primo manager di passaggio – continui a indossare quei paraocchi che impediscono loro di vedere gli effetti del cambiamento climatico sulla Terra, mentre sminuiscono un’intera generazione – non la nostra, ormai vecchi e stanchi millennials, ma quella di Greta Thunberg e Billie Eilish – che sta lottando per cambiare qualcosa.
Non il mondo, non l’intera società, ma qualcosa. E mentre i veri figli del nuovo millennio rinunciano a buttarsi nella mischia del tutti contro tutti, decidendo di fidarsi l’uno dell’altro per sconfiggere le divisioni, dovrebbero essere i fascismi a tremare, perché i prossimi vincitori della lotteria, potrebbero essere proprio loro.