Storia nera e storia del fumetto
Nella sua storia la Marvel ha sempre avuto una capacità invidiabile. Quella di saper cogliere lo spirito del tempo. Lo si è visto con Captain America, Doctor Strange, Iron Fist e con i Fantastici Quattro. Sono dozzine gli albi che gli autori Marvel sono riusciti a proporre ai lettori indovinando la tendenza del momento, spesso anticipandola. Questo metodo non sempre garantiva alle testate una lunga vita, tuttavia permetteva ai personaggi di vivere abbastanza a lungo da fidelizzare una fetta di pubblico e permettere loro di continuare ad esistere.
Gli anni magici della Marvel Comics furono quelli del decennio 1960. Quasi tutti i personaggi simbolo della Casa nacquero dalla penna di Jack Kirby e di Steve Ditko, ispirati dalle idee di Stan Lee in quel periodo. Tra questi c’è anche Black Panther, protagonista di una pellicola capace di conquistare ben tre Premi Oscar.
Black Panther e le black panther.
Parlando delle origini di Black Panther si può dire che mai il periodo di nascita di un supereroe fu più azzeccato. Gli anni sessanta sono anche gli anni in cui si cerca di porre fine alla politica della segregazione razziale. Sono anni di fermento sociale e culturale per le comunità nere degli Stati Uniti. Un fermento che si manifesta sia ricorrendo a mezzi pacifici, rivendicano la propria identità e i propri diritti, sia mettendo in atto proteste violente.
In pochi anni gli States approvarono prima il Civil Rights Act (1964), e poi il Voting Rights Act (1965). Ma la maggior parte della nazione non era ancora matura per approvare e comprendere la necessità dell’uguaglianza tra le diverse comunità da cui era composta.
Questo, è bene sottolinearlo, non riguardava solo i movimenti razzisti conclamati. Ci fu una certa difficoltà ad approcciarsi alla nuova realtà da parte di tutta la popolazione, e la nascita di Black Panther, eroe creato nel 1966 da un’idea del Re, Jack Kirby, ne è un chiaro esempio.
Kirby, in diverse interviste successive, sostenne di aver concepito Black Panther rendendosi conto, quasi come un’epifania, che molti dei suoi amici più stretti erano afroamericani. Non solo, quegli amici leggevano e amavano i suoi fumetti. Possibile che non si fosse mai reso conto di questa cosa? Era come se la Marvel stesse ignorando il mercato dei lettori di colore, curandosi solo della Middle Class bianca.
Certo, c’erano stati personaggi afroamericani, come Gabe Jones, celebre compagno di Nick Fury apparso sulle pagine di Nick Fury e gli Howling Commandos, ma non c’era ancora nessun eroe dalla pelle nera per rappresentare una fetta crescente dei True Believers della Marvel.
Il Re concepì all’inizio un eroe privo di maschera, chiamandolo Coal Tiger. Il nome tuttavia non entusiasmò lo staff editoriale della Marvel e fu Stan Lee a pensare al nome Black Panther. Curiosamente il nome anticipò di soli tre mesi la nascita dell’omonimo movimento. T’Challa esordì su Fantastic Four #52 (Vol. 1) e fu un esordio senza dubbio spettacolare, con il re del Wakanda che venne mostrato capace di battere in duello tutti i membri del Quartetto.
Il personaggio ottenne subito un ottimo riscontro tra il pubblico. Negli anni la Marvel lo impiegò anche per storie a sfondo sociale, parlando in maniera chiara di diritti civili. Il fatto che il personaggio fosse africano, monarca incontrastato di una nazione, forniva tra le altre cose un certo margine di manovra nel suo utilizzo, permettendo di aggirare alcune delle polemiche che potevano nascere nell’uso di un personaggio afroamericano. Un piccolo esempio è la scazzottata che Pantera Nera ebbe con il Ku Klux Klan.
Africano e non afroamericano.
La sfumatura per certi versi è sottile ma nel mondo del fumetto può costituire una differenza abissale. Il tentativo di rappresentare la popolazione afroamericana nonostante Black Panther era in effetti ancora incompiuto. Come detto l’origine africana di Pantera Nera era utile ad aggirare alcuni problemi con la censura, in anni in cui la CCA spadroneggiava, ma questo aveva anche il limite di rendere meno realistiche alcune tematiche. Vedere un monarca del nord Africa affrontare il Klan era una cosa; vedere un cittadino afroamericano sarebbe stato completamente diverso.
A sopperire a questa mancanza saranno Stan Lee e Gene Colan nel 1969, creando il personaggio di Sam Wilson, noto ai lettori Marvel come Falcon.
Sin dalla sua prima apparizione in Captain America #117 Falcon si configura come un uomo strettamente legato al suo ambiente e al suo essere afroamericano. Nato ad Harlem e figlio di un predicatore attivo nella lotta tra bande, la vita di Sam è segnata dai molti episodi di razzismo subiti nella sua infanzia. Questa discriminazione costante è una delle cause dirette della sua marginalizzazione, la scelta di rinunciare a quella società che sembra averlo rinnegato.
Falcon sin dai suoi esordi sulle pagine di Captain America dimostra di voler parlare a quella fetta di popolazione americana che rappresenta senza edulcorare i propri contenuti. Non si limita a mostrare il riscatto: spiega anche per quale motivo esso sia necessario. E lo fa mostrando la piccola criminalità del ghetto, l’odio immotivato della gente per il colore della pelle, l’emarginazione, ma anche l’inclusione nata dalle cause sbagliate. È il caso della sua militanza nei Vendicatori, quando questi finirono sotto il controllo di H.P. Gyrich. Falcon parlò per la priva volta nella storia del fumetto di “tokenism“, ovvero l’inclusione di un singolo membro quale rappresentante della sua etnia, e lo fece nell’America degli anni ’70, quando era ancora un argomento poco conosciuto e quasi ignorato.
La blaxploitation a fumetti.
Gli anni settanta vedono anche la comunità afroamericana inizia a differenziare le proprie produzioni in campo artistico. Sono gli anni della blaxploitation, il cinema che racconta la storia di personaggi afroamericani, per afroamericani. Un movimento che la Marvel incarnerà in un nuovo personaggio: Luke Cage.
L’eroe in vendita di Harlem sarà anche il primo eroe di colore ad ottenere una propria testata. La sua figura sembra voler fare a pugni con tutta la realtà di supereroi bianchi che domina il mercato. La stessa realtà che Luke Cage definisce senza esitazioni “un teatrino” in maniera quasi sprezzante.
Le storie che lo coinvolgono sono storie quasi di guerriglia urbana. Vediamo lotte tra bande comandate da matrone della malavita e gangster dal grilletto facile. Un ambiente criminale, a cui fa da sfondo una New York notturna, in cui si alternano vicoli bui e neon, per certi versi simili alle storie di Daredevil, eppure privi di quell’ultima patina data dal diritto e dalla legge presente nelle storie del Diavolo di Hell’s Kitchen. La giustizia non può essere raggiunta all’interno del sistema, che spesso ignora i colpevoli e punisce gli innocenti, come lo stesso Luke. L’unica strada è quella dell’attivismo, del mettersi al servizio degli altri. Poco importa se spesso questo vuol dire rinunciare a essere pagati.
Cage nasce come una trasposizione su carta della blaxploitation. Un fumetto che si rivolge esclusivamente a lettori afroamericani, estremizzando alcuni dei propri contenuti, rendendoli quasi kitsch. Questa linea editoriale avrà tuttavia vita breve, venendo accantonata nel momento stesso in cui la blaxploitation inizierà a perdere colpi, scegliendo di dare al personaggio un taglio decisamente più simile a quello degli altri colleghi in calzamaglia. Ma a Cage resta un merito: quello di aver cercato di mostrare il lato più crudo, sporco e violento della marginalizzazione sociale negli States.
Arriva la Tempesta.
Ma gli anni ’70 non sono solo un periodo di crimine e violenza. Sono anche un momento di lotte sociali e conquiste. Siamo nel momento storico in cui il femminismo attraversa il vivo della sua “seconda ondata”. Tra il 1968 e il 1978 il governo degli Stati Uniti vara leggi che contribuirono a riscrivere la figura della donna nel paese. Sono gli anni di attività di figure come Kate Millett, Shulamith Firestone e Audre Lorde.
La figura delle eroine cambia, e questo coinvolge sia alcuni personaggi storici come Susan Storm, sia nuovi volti della casa delle idee, come la X-Woman Tempesta.
Pur non essendo la prima eroina dalla pelle nera della storia (l’afroamericana Misty Knight la precede di pochi anni), la prima comparsa di Tempesta sulle pagine di Giant Size X-Men #1 nel 1975 costituisce un momento importante nella storia del fumetto.
Ororo Munroe viene presentata come una mutante dai poteri sconfinati, venerata come una dea. Il suo inserimento negli X-Men diventa un percorso che la porta, poco alla volta, a ottenere un posto di spicco sempre maggiore nel gruppo, fino a diventarne la leader a tutti gli effetti. Tempesta in questo rappresenta non solo la figura dell’ideale femminista, la donna che riesce a superare le avversità di un ambiente dominato da figure maschili fino a imporre le proprie capacità. Ma è anche un riscatto per quanti si vedevano frenati dal colore della propria pelle.
La rabbia e la verità
La Marvel riuscì con un solo personaggio a portare su carta diverse anime dei fermenti sociali presenti negli Stati Uniti. Una capacità invidiabile, anche se non sempre del tutto in grado di dare buoni frutti. Basti pensare allo sfortunato tentativo di Rage, forse un tentativo di fare leva sulle nuove rivolte contro il razzismo che stavano prendendo piede negli anni ’90.
Tuttavia esempi della capacità della Casa delle idee di capire il momento storico e reinterpretarlo su carta sono presenti anche in anni recenti, nella figure di Captain America. Anche se non stiamo parlando di Steve Rogers e nemmeno di Sam Wilson, ultimo erede dello scudo.
Parliamo di Isaiah Bradley, il Captain America nero. Un personaggio che è anche una denuncia, il ricordo di come la storia americana abbia spesso lasciato in secondo piano il contributo degli afroamericani del rendere gli Stati Uniti ciò che sono.
Se il ruolo assunto da Sam Wilson negli ultimi anni è stato tacciato spesso di essere molto, troppo politically correct, il ruolo di Isaiah, limitato a una brevissima run di fumetti, appare invece l’esatto opposto. È il tentativo di mettere in scena il lato più sporco della storia americana. Dagli esperimenti condotti sui soldati di colore, fino al rifiuto del loro ruolo e al mancato riconoscimento dei meriti guadagnati sul campo.
Isaiah fu uno dei soldati utilizzati dal governo degli Stati Uniti come cavie per creare il siero del supersoldato, lo stesso che renderà il gracile Steve Rogers Captain America. Solo lui, di tutto il suo gruppo, mostrerà di aver ottenuto i poteri di un soldato perfetto senza evidenti effetti collaterali. Un gruppo composto solo da militari di colore. In fondo era il loro scopo quello di immolarsi perché l’America avesse un simbolo nella lotto contro l’Asse. Scelti perché sacrificabili, sacrificabili perché neri. Questo ci dice senza mezzi termini la storia di Robert Morales e Kyle Baker.
Isaiah sopravvive e si sacrifica in tutto e per tutto. Una volta scoperto che i nazisti stanno mettendo a punto una loro versione del siero l’esercito lo invia a porre fine a quegli esperimenti. Ma, per farlo, decide di prendere una delle uniformi di Cap, per far sì che quella missione abbia un simbolo per cui lottare oltre che uno scopo. Nonostante Isaiha sventi la minaccia, i tedeschi lo catturano. Dopo essere fuggito e tornato in patria, viene condannato per diserzione e il furto della divisa, subendo l’abbandono e il disonore da parte della nazione che aveva protetto. E, allo stesso tempo, diventa un simbolo per la sua comunità, quella afroamericana, che arriva a mitizzarlo per le sue imprese. Lo stesso Steve Rogers, venuto a conoscenza dei fatti, renderà omaggio all’uomo che ha reso possibile la sua esistenza col suo sacrificio.
Qui vediamo il lato più conosciuto dell’America, il suo simbolo per eccellenza, scendere a patti con la realtà, riconoscere la verità e accettarne le conseguenze. Un pentimento e un dolore forse tardivo, che tuttavia permettono agli Stati Uniti una presa di coscienza necessaria. Un modo per andare avanti e non commettere in futuro gli stessi errori. La consegna di quella uniforme lacera e stracciata da parte di Cap assume un valore nuovo. Il riconoscimento da parte dell’America bianca del valore e del sacrificio dell’America nera.
Due anime del sogno americano a cui nel tempo se ne sono unite molte altre. Alla minoranza afroamericana se ne sono aggiunte altre, provenienti dall’America Latina, dal sud est Asiatico, dal Medio Oriente.
Così sulle pagine dei fumetti della Casa delle Idee abbiamo visto sfilare Miles Morales come nuovo Spider-Man. Amadeus Cho, il quale ha anche indossato i panni di Hulk. E infine Kamala Kahn, l’erede di Carol Danvers, col nome di battaglia di Ms. Marvel. Nuovi personaggi che contribuiscono a rappresentare nuove parti della popolazione americana. Nuovi tentativi di mostrare l’integrazione negli Stati Uniti, alcuni portati inoltre con successo nel Marvel Cinematic Universe, come Falcon e Black Panther. Un processo che costituisce la linfa vitale della popolazione americana e che ha contribuito a creare quella nazione attraverso sangue e dolore, ma anche tramite conquiste e affermazioni sociali.