Black Panther: Wakanda Forever arriva nelle sale, provando a combattere le difficoltà
lack Panther: Wakanda Forever arriva nei cinema carico di molte responsabilità. È il sequel di un film, il Black Panther del 2018, che così tanto aveva significato per la comunità nera statunitense in uno dei periodi più frustranti della storia americana recente; ha il dovere poi di dare il giusto addio alla Pantera nera di Chadwick Boseman, in poco tempo divenuto simbolo culturale e scomparso precocemente per un cancro al colon nel 2020; infine è anche il tassello conclusivo di una Fase 4 del Marvel Cinematic Universe che si è fatta terreno di semina dopo i grandi sconvolgimenti del dittico Infinity War – Endgame. Un bagaglio sulla schiena non da poco. Su alcune cose riesce, su altre non muove grandi passi.
Il film alla cui regia torna Ryan Coogler, anche in sceneggiatura ancora con Joe Robert Cole, si apre in un modo inevitabile. Sono gli ultimissimi istanti di vita di re T’challa, che sta morendo di una malattia che non conosciamo in una stanza che non vediamo, off screen. In questi primi disperati momenti di Black Panther: Wakanda Forever siamo con Shuri (Leitita Wright), stremata dai tentativi di cercare di ripristinare l’erba a forma di cuore per curare in extremis suo fratello. La tecnologia, per la prima volta, le volta le spalle. Re T’challa muore.
E non può di certo non muovere a sentimento un prologo che riecheggia così tanto l’icona di Boseman la cui improvvisa dipartita ha scosso il mondo Marvel, a cui anche gli interi titoli di testa del film sono dedicati. Non è un prologo prolisso, non è lacrimoso, è consumato nel riserbo e nel rispetto. Poi Black Panther: Wakanda Forever inizia per davvero e ci consegna nella mani di una protagonista il cui trauma da elaborare è in chiave drammaturgica perfetto: è stata tradita dal suo talento e da tutto ciò in cui credeva per davvero. «A noi non serve l’erba, ma solo nuove tecnologie», «Black Panther è storia vecchia».
Sulla doppia linea che vede collidere la supremazia tecnologica e il rispetto delle tradizioni si instaura una prima porzione di film che mette in ballo intriganti questioni geopolitiche. A un anno dalla scomparsa di T’challa, il Wakanda è ancora in lutto per il suo re. Gli interessi delle grandi potenze del mondo (Francia e Stati Uniti, dal retaggio colonialista i primi, schiavista i secondi) hanno però sempre gli occhi puntati sulle risorse del piccolo regno africano, l’unico a detenere il controllo del preziosissimo, anche in ottica militare, vibranio.
Si parla molto di armamenti, di proliferazione nucleare e di ingerenze straniere sulla sovranità nazionale di questo stato che non ha ancora trovato un successore al trono e che non ha alleati sullo scacchiere internazionale. A guardare il periodo storico che stiamo vivendo, con una guerra in corso nel cuore dell’Europa, se da una parte paiono risultare così fuori fuoco, erronei, i discorsi di conflitti tra nazioni in un contesto diegetico come quello del MCU dove la partita da giocare è su scala cosmica, dall’altra l’illogicità della situazione non può che apparire pienamente in linea con l’assurdità, e l’anacronismo, dei retaggi belligeranti del Novecento che stiamo vivendo e che ignorano le reali sfide a cui ci chiama il futuro – l’inversione del riscaldamento globale, le risorse alimentari, la conquista dello spazio.
Mentre questo è lo scenario, Black Panther: Wakanda Forever attraverso la figura di Shuri pare volerci dire che senza accogliere l’eredità e il filtro dello sguardo al passato, l’affidarsi alla tecnica e alla corsa alle risorse che quella tecnica richiede è solo un tranello che inevitabilmente condurrà, sempre, al conflitto. E lo scenario si complica ulteriormente quando fa il suo ingresso in scena Namor (Tenoch Huerta), qui un mutante e re non degli atlantidei ma del popolo di origine maya di Talokan, nascosto sotto i mari e rimasto celato per secoli perlomeno fino ad ora, minacciato dal mondo di superficie che ha trovato delle riserve di vibranio nel dominio del regno sommerso.
Le difficoltà di Black Panther: Wakanda Forever, che spesso sono le difficoltà di diversi film del Marvel Cinematic Universe, risiedono nel momento in cui il grande ragionamento che collega questo universo narrativo assieme e che fa eco con la contemporaneità deve conciliarsi con le specificità del singolo prodotto. Il lavoro firmato da Coogler dura davvero molto, due ore e quaranta, e se in prima istanza azzecca le giuste linee lungo le quali dipanarsi (l’abbiamo detto: le frizioni tra nazioni, l’eterna minaccia del conflitto e del colonialismo economico, la paura dell’invasione da cui scaturirà anche uno scontro con Namor e Talokan), nel merito del racconto pare girare parecchio a vuoto per andare a dire infine poche cose di valore da pennellare nel grande quadro che fa da sfondo.
Senza scendere nei dettagli, basti dire che Black Panther: Wakanda Forever è in sostanza un grande nulla di fatto. Non che la cosa non abbia il suo senso. Anzi, sotto un certo punto di vista è la giusta risoluzione che disvela l’accecamento collettivo a cui conducono l’idiozia, la vendetta, l’incapacità di accogliere la lezione della Storia. Lo sforzo interpretativo quando si tratta di MCU è l’atteggiamento più stimolante da mettere in ballo, ma in questo caso finisce per cozzare con una narrazione che arranca, che inciampa in una diluizione del racconto dove a volte sceglie risposte semplici a domande complesse, dove prende la via più lunga con l’intento di elaborare meno di quanto poi finisca per fare.
Emozionano gli omaggi, funzionano i passaggi di consegne, gli archi si chiudono a dovere. Shuri trova le sue risposte e il conflitto che la caratterizza è probabilmente la cosa meglio riuscita del film, che dalla contingenza della triste realtà da cui scaturisce trae un valore che lega più di quanto già non sia il racconto Marvel a chi quel racconto lo fruisce. Ma sempre con un passaggio di troppo e con diversi colpi di fumo durante il percorso. In Black Panther: Wakanda Forever c’è una struttura corale che continua a parlare e interagire con efficacia, cedendo qualcosa durante la tenuta degli assoli a cui non sempre si riesce a star dietro con altrettanto interesse.