Tanto Spike Lee. Forse troppo.
A tre anni da Chi-Raq torna al cinema Spike Lee con un film che è Spike Lee all’ennesima potenza, per forma e contenuti.
BlacKkKlansman (al cinema dal 27 settembre) è infatti l’adattamento cinematografico dell’omonimo libro scritto dall’ex poliziotto Ron Stallworth, un agente afroamericano di Colorado Springs, che negli anni ’70 si infiltrò nella divisione cittadina del Ku Klux Klan.
La curiosità di vedere un argomento del genere trattato dalle mai tenere ma sapienti mani di Lee era molta, ed il regista incanala subito il film in una determinata direzione, quando invece di iniziare a raccontarci la storia di Stallworth apre con le sequenze di due vecchie pellicole, ovvero “La nascita di una nazione” e “Via col vento”, utilizzati come un ariete per scardinare da subito la quarta parete e comunicare direttamente allo spettatore che BlacKkKlasman sarà tremendamente Spike Lee. A ciò aggiungiamo il personaggio di tale Dr. Kennebrew Beauregard, che si lancia in un lungo monologo sulla supremazia della razza bianca, ma in modo goffo e dimenticando le battute, e soprattutto interpretato da Alec Baldwin, che non può non farci venire in mente la sua recente parodia di Trump.
Insomma, Lee ci mette dentro tutto, dando vita da subito ad una satira politica dolceamara volta a dipingere l’idiozia del razzismo.
Nonostante questo lento e particolare avvio, l’opera entra nel vivo e procede in maniera – a questo punto inaspettatamente – fluida ed organica, almeno per lunghi tratti, percorrendo finalmente i binari della narrazione filmica. La natura in parte ibrida diviene purtroppo il principale problema di BlacKkKlasman, che a dispetto di una storia indubbiamente interessante e con un cast indovinato, finisce vittima del messaggio stesso del film, esasperato dalla metanarrazione di Lee, che per darle forza sente la necessità di un’introduzione e di un finale di stampo quasi documentaristico, che spezza di fatto l’opera in più tronconi, snaturandola, ma soprattutto gettandoci più volte in pasto ai monologhi lunghissimi e soporiferi dei suoi protagonisti.
Il messaggio che il regista ci vuole comunicare è encomiabile e si percepisce il suo desiderio di arrivare al pubblico, ma lasciarci per minuti in balia di Stokely Carmichael (qui interpretato da Corey Hawkins) e il suo infinito comizio è sfidare le leggi del cinema, soprattutto perché questa pratica si ripete alche in altre circostanze, dove sebbene Spike Lee ci lasci godere di alcuni gradevolissimi vezzi tecnici, un bel taglio di minutaggio sarebbe stato altrettanto apprezzabile.
Dall’altro lato abbiamo comunque una serie di pregi che l’opera porta con sé. A partire dal modo in cui il regista sceglie di ferire l’anima del Klan, ironizzando e ridicolizzando in maniera estrema ma spesso divertente il razzismo, abbinando il tutto ad una narrazione comunque efficace e supportata da alcuni grandi performer, a partire dal figlio d’arte John David Washington, passando per un Adam Driver magari non straripante come nel film di Gilliam ma sempre in grado di dire la sua, e tutta una serie di personaggi secondari che fanno bene la loro parte, seppur eccessivamente stereotipati.
In questo ultimo aspetto e nella struttura di base il film ricorda alcuni suoi predecessori, opere che hanno trattato argomenti simili e – a chi l’ha visto – non può non far venire in mente Imperium, lungometraggio del 2016 diretto da Daniel Ragussis, con Daniel Radcliff. Anche lì si trattava di fatti ispirati ad una storia vera, e il protagonista era un agente dell’FBI che si infiltrava in un gruppo terroristico neonazista. Anche la composizione del “clan” e dei personaggi che ne fanno parte è davvero molto simile. È di certo una manovra inconscia dettata dalla volontà del regista di stereotipare alcuni elementi, ma nei fatti ci sembra tutto un po’ già visto.
Quel già visto, se non altro, è gratificante per gli occhi, poiché passa qui attraverso la fantastica fotografia di Chayse Irvin, l’altrettanto eccezionale scenografia di Curt Beech, ma soprattutto le musiche di Will Bates, che ci catapultano immediatamente nell’America degli anni ’70. E poi alcuni guizzi improvvisi di Lee, che ci regala citazioni da Shaft o Superfly, o altre perle dalla blaxploitation, spesse affidate ai divertenti siparietti tra Ron e la stupenda Patrice (Laura Harrier).
Se Spike Lee avesse affidato esclusivamente alla narrazione e alla sua incredibile tecnica il proprio desiderio di far arrivare al pubblico il suo importante messaggio, di sicuro avremmo assistito ad un film più fluido ma ugualmente autentico.
Verdetto
BlacKkKlansman (al cinema dal 27 settembre) è l’adattamento cinematografico dell’omonimo libro scritto dall’ex poliziotto Ron Stallworth, un agente afroamericano di Colorado Springs, che negli anni ’70 si infiltrò nella divisione cittadina del Ku Klux Klan.
Detta in altre parole, è il pretesto di cui Spike Lee si serve per far arrivare al pubblico un messaggio importante, ma a fronte di un film visivamente ineccepibile, magistralmente girato e ben interpretato, c’è un grosso problema di continuità dettato dell’eccessiva voglia del regista di comunicare con gli spettatori, rendendo l’opera troppo ibrida, a tratti didascalica e metanarrativa, spezzandola improvvisamente in tronconi e facendogli perdere quella fluidità che invece lo script porta in dote.
Se vi piace BlacKkKlansman…
Nel film – come detto – vengono citate perle della blaxploitation che dovete assolutamente guardare, come i vari Shaft o Super Fly. Mentre se amate il cinema di Spike Lee, soprattutto questo lato che emerge dall’opera in questione, vi suggeriamo di recuperare Malcom X e Clockers.