Le Bestie dall’Anima Nera
Lassù in alto, la Luna scruta Yharnam come un occhio ammonitore. Troppe volte la città si è macchiata di orrori indescrivibili. Yharnam non è una città come le altre, è un maleodorante manicomio a cielo aperto. Yharnam non conosce giustizia. Con mani di ghiaccio artiglia le menti dei suoi poveri abitanti, rendendoli schiavi di una follia collettiva, intrappolandoli così in un disgustoso incubo senza fine. Le persone si trascinano per le strade alla ricerca di un mostro che non c’è. Soggiogati da una malattia subdola, infame. Il confine tra ciò che è umano e ciò che non lo è, ormai è inesistente. Le menti vacillano, i corpi assumono le sembianze di creature disgustose, le stesse a cui i poveri abitanti danno inesorabilmente la caccia. Si concretizza così un perverso circolo vizioso, uno stillicidio mentale la cui unica via d’uscita è la morte. Sullo sfondo di una città malata, Miyazaki ci racconta una delle storie più nere di sempre. Scritta col sangue degli abitanti di Yharnam, ciò a cui assistiamo è incubo morboso che affonda le sue radici nel più vile degli animi: quello umano. Interrotto solo dal nostro lento incedere, Bloodborne non ha la presunzione di narrare una storia a lieto fine. Yharnam non avrà il suo “Chosen”, pronto a immolarsi per la causa e rimettere tutto a posto. Nei vicoletti bui di questa città, non c’è spazio per la speranza, né tantomeno c’è concessa una redenzione finale. Piuttosto, con voce rotta, ci sussurra le nefandezze che la città ha vissuto, concedendoci sempre e comunque il beneficio del dubbio. Quasi come se si volesse far intendere tra le righe, che nessuno può sfuggire a questa malattia, nemmeno noi. Le informazioni sono frammentarie ma coerenti, ogni singola ermetica descrizione aggiunge come al solito tasselli a quell’enorme puzzle speculativo, fatto più di suggestioni e elucubrazioni che di concretezza, ma non per questo poco interessante. Sedimentata sotto uno strato di apparente inconcludenza narrativa, c’è una Lore incredibilmente affascinante. Una mitologia, quella di Bloodborne, sempre coerente con se stessa e che vi chiede unicamente di sacrificare un po’ del vostro tempo, per fermarvi ad osservare e a leggere quel tanto che basta per capire che vi trovate all’interno di un mondo sconfinato e bellissimo.
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Hunter or hunted?
Bloodborne è il quarto capitolo “apocrifo” della serie e pur non facendo parte del filone principale ne conserva l’essenza. Abbandonati gli evocativi paesaggi dei precedenti episodi, Bloodborne ci proietta all’interno di un mondo ancora più cupo e malvagio. Yahrnam metterà a dura prova la pazienza di chiunque, punzecchiando e irridendo chi, atrofizzato da un livello medio di difficoltà troppo basso, non è più abituato a sentire sulla propria pelle il sapore agrodolce della sconfitta. Bloodborne non vi chiederà scusa per il suo sadismo velato, né proverà ad addolcirci la pillola. Vi lascerà nelle mani spietate dei nemici, illustrandovi distrattamente solo i comandi base e nulla più. Chiunque si approcci al titolo per la prima volta, abbia bene in mente questo: Bloodborne pretenderà da voi un impegno videoludico enorme, punendovi, sempre e comunque, per ogni vostra minima disattenzione. Eliminando ogni fronzolo dal concept base dei Souls, Bloodborne si presenta come un Action-RPG nudo e crudo e decisamente più frenetico. A Yharman non si scherza, il tempo per rimanere nascosti dietro ad uno scudo è finito. L’azione è così frenetica che quasi si fa fatica a stare al passo. Il classico roll lascia spazio ad una schivata più audace. Abbandonate le pesanti armature, il nostro Cacciatore è un combattente estremamente agile, qualità indispensabile per sopravvivere ai tanti pericoli. Cavalcando l’onda del dinamismo, tutto il sistema di combattimento ha subito delle modifiche sostanziali. Ogni arma si presenta in duplice forma, infatti, con la semplice pressione del trigger, il nostro strumento di morte si trasformerà all’istante.
Ecco che una spada lunga diventa un martello. Un’ascia diventa un’alabarda e così via. Un’idea piuttosto semplice a dire il vero, ma che esalta un gameplay già di per sé incredibilmente appagante. Trasformazione quindi non solo estetica, ma decisamente funzionale se considerate la possibilità di inserire l’animazione all’interno di una qualsiasi combo per creare un ulteriore attacco unico. A fronte di un apparente impoverimento quantitativo, le armi di Bloodborne di numero inferiore, in realtà offrono un gameplay più variegato. Per fare ammenda al pessimo lavoro fatto sui moveset di Dark Souls 2, Bloodborne presenta un numero decisamente inferiore di armi, per fortuna l’unicità dei moveset e l’aggiunta di un secondo attacco pesante, mette in moto una macchina ludica incredibilmente profonda, capace di offrire nuove sensazioni anche dopo tantissime ore di gioco.
La possibilità di caricare un attacco, e l’utilizzo delle armi da fuoco, portano il sistema di combattimento su un piano totalmente diverso. Il backstab ad esempio, è realizzabile unicamente a seguito di un attacco caricato alle spalle; per tanto potete anche dimenticare la tattica di girare perennemente intorno al nemico. Le armi da fuoco invece, oltre interrompere e colpire a distanza ai nemici sono indispensabili per il parry. Dimenticando le assurde aperture del secondo capitolo, Miyazaki ha fatto in modo di creare una finestra per il parry leggermente più ampia e soprattutto più precisa e dinamica. E non solo. Contro alcuni nemici è quasi indispensabile utilizzare il parry, soprattutto contro avversari umanoidi, dotati di una buona intelligenza artificiale, servirsene è fondamentale. A Bloodborne spetta in tal senso un piccolo primato: quello di essere un gioco “nuovo”, nonostante non si tratti di un titolo inedito in senso stretto.
Bastano pochi minuti per rendersi conto delle differenze. L’intero feeling di gioco risulterà nuovo anche ai giocatori più esperti, anzi, saranno proprio loro a soffrire di più. Mortificati nell’animo da un titolo incredibilmente punitivo, è facile perdere la speranza. Proprio superando uno di questi momenti di rottura, s’inizia ad assaporare la vera essenza del gioco. Una volta entrati in quella meccanica perversa di automiglioramento non se ne esce più. Solo allora si possono fare i conti con la propria autostima e capire – e soprattutto apprezzare – con che mentalità bisogna affrontare quest’esperienza. Se ciò non vi succedesse, vi ritroverete a dare la colpa dei vostri insuccessi a un gioco “troppo difficile”. Bloodborne in realtà non vuole svilirvi, né mortificarvi, solamente cerca di instillare in voi una forma mentis ludica ormai dimenticata. La direzione artistica è precisa, abbandonato il concetto stesso di “Anima”, Miyazaki ci inietta la sua personale visione del “Sangue”. Attraverso il quale il nostro personaggio nasce come Cacciatore, e sempre attraverso di esso matura ed in un certo senso muore. Con una coerenza incredibile Miyazaki porta avanti la sua idea e la distribuisce all’interno del gameplay in maniera intelligente. Il sangue diviene moneta di scambio in una città marcia fino al midollo. Dalle cure fino ad arrivare al potenziamento del personaggio e delle armi: tutto ruota intorno al sangue. Con un sistema più snello e intuitivo, questi upgrade si dividono un due grosse categorie: si può migliorare indistintamente le caratteristiche base e in più aggiungere delle gemme con delle varie abilità (in pratica del sangue cristallizzato) all’interno di esse. Impostazione totalmente inedita per la serie e che, di fatto, aggiunge un tocco di classe alla struttura ludica. Anche per ciò che riguarda il personaggio è stato fatto un lavoro simile: meno statistiche da modificare, ma effetti più impattanti a ogni level up. Gli anelli invece lasciano il posto a delle Rune, sotto quest’aspetto le differenze sono più estetiche, visto che di fatto il concetto alla base è lo stesso.
Combattimenti frenetici, un sistema di crescita appagante, un’atmosfera disturbante e perversa, sono questi elementi ad imprigionarci in un loop videoludico infinito. Morte dopo morte, imprecazione dopo imprecazione, finiamo per integrarci perfettamente al mood di questa fetida città. Ne siamo schiavi incoscienti, rapiti da quei scorci paesaggistici suggestivi e da quel gameplay assuefacente. Ora dopo ora, Yharman si mostra in tutta la sua crudeltà, ed è proprio nel suo fascino misterioso e perverso che ne risiede la sua più grande bellezza. Al di là del mero aspetto estetico, Yharnam è un piccolo capolavoro di level design. La città si contorce labirinticamente su se stessa, ci asfissia con i suoi posti stretti e nauseanti per poi sbatterci in faccia la sua assoluta perfezione strutturale. Ogni singola strada è coerente con l’ambientazione, ogni sentiero percorribile è collegata con una precisione patologica con il resto della città. Il level design si piega al volere di un gameplay frenetico, alla necessità di fornire al giocatore soluzioni veloci per non ripetere sempre e comunque gli stessi errori: ecco quindi short cut a non finire, piccoli e grandi snodi dove poter raggiungere aree già esplorate anche quando non c’è né strettamente bisogno. Da un punto di vista architettonico, Bloodborne raggiunge e forse supera quanto visto a Lordran.
Ma a conti fatti la vera follia di Bloodborne sta nel riuscire ad offrire ai fan di lunga data un’esperienza in parte inedita. Miyazaki si rivolge proprio a loro, e lo fa silenziosamente, senza essere inutilmente invadente. Piccoli cambiamenti ben cadenzati, che fanno a pezzi una struttura di gioco ben conosciuta, e la rielaborano in qualcosa di tremendamente nuovo ma al tempo stesso familiare. Il ritmo completamente inedito, la necessità di essere più aggressivi e spietati per poter recuperare parte dell’energia persa, un tracking dei nemici più sensato ed unito ad una ferocia e velocità maggiore, può portare allo sconforto anche i giocatori più esperti. Ancora una volta la serie, pretenderà dal vostro spirito di videogiocatore qualcosa in più, e vi ricompenserà con un’esperienza unica nel suo genere. E scusatemi se è poco.
Il ritmo altamente inebriante ci accompagnerà fin troppo presto all’ending game, dopo circa trenta ore di gioco ci troviamo, quasi senza sapere perché, nel New Game Plus. La durata decisamente inferiore non deve però scoraggiarvi, il ritmo più intenso esalta l’intera esperienza e i contenuti i New game plus si sprecano. Le aree ancora inesplorate, i boss secondari lasciati alle spalle, NPC (non tanti) ancora da scoprire. All’interno di Yharnam e dintorni c’è tutto un mondo da scoprire, da visitare con occhi nuovi e apprezzare come se fosse ancora il nostro primo viaggio. Il fattore rigiocabilità si manifesta al suo pieno potenziale all’interno dei dungeon procedurali. Recuperando alcuni Calici sparsi per il mondo di gioco, si può accedere a dungeon creati in maniera casuale e per, questo motivo, sempre diversi. Certo, la complessità del level design non è minimamente paragonabile all’avventura principale, ma in ogni caso tra un bottino sempre più ghiotto, la possibilità di aggiungere degli oggetti che ne modificano difficoltà e ambientazioni, i Dungeon Procedurali sono forse la miglior trovata fatta dagli sviluppatori da Demon’s Souls ad oggi.
Esperienza in teoria completamente condivisibile insieme ad amici, in cooperativa o in player vs player. Sulla carta l’idea è più che ottima: per invitare un amico all’interno del proprio mondo o nel proprio dungeon, Bloodborne mette a disposizione una serie di password per far sì che si finisca a giocare con un determinato giocatore anziché uno scelto a caso dal sistema. Idea che si scontra con una realizzazione non proprio ottima, fatta di tempi di caricamento assurdi e di un sistema, nemmeno spiegato nel gioco, che impedisce a giocatori di un livello troppo diverso di cooperare tra di loro e per di più ancorato a i Punti Intuizione (ottenibili sconfiggendo boss e recuperando alcuni oggetti), in maniera poco intuitiva e soddisfacente. Comprendiamo che cooperare con un giocatore “sgravo” rovinerebbe quello che a conti fatti è una scelta di game design ben precisa, ma allo stesso tempo siamo sicuri che inserire una sorta di level cap al proprio personaggio quando si è evocati da player con un livello più basso, non sia cosa impossibile da realizzare. Un multiplayer rovinato in parte da alcune scelte tecniche e stilistiche decisamente migliorabili, paradossalmente Bloodborne crea community al di fuori del gioco stesso. Un’esperienza collettiva che trascende il medium, e lo porta asincronamente su di un altro piano fatto di forum, e discussioni su internet tra i giocatori intenti a scambiarsi pareri ed opinioni. Sentendosi quindi parte di un mondo così distante ma quasi tangibile. Peccato quindi non poter vivere, pad alla mano, la sensazione di far parte di una comunità di appassionati che condividono lo stesso nefasto destino.
Il rantolo della città maledetta
Bloodborne è, senza ombra di dubbio, il titolo artisticamente e visivamente migliore di questa generazione. Con una convinzione incredibile Miyazaki ha portato avanti la sue idee sul setting senza mai ritrattare e senza fuoriuscire nemmeno per sbaglio da quell’atmosfera cupa e malevole che il gioco tenta di trasmettere. Il fetore intriso nei vicoletti bui, i miasmi maleodoranti provenienti da tombini, il fuoco delle fiaccole sparse per una città in preda alla follia. Gli scenari trasudano di dettagli, è quasi disturbante assistere ad una così grande direzione artistica, così spietata e sicura di sé da non lasciar spazio a dubbi sulla propria autorialità. Yharnam, così come ogni altra ambientazione, ci trasporta in un mondo corrotto, folle e macabro ma allo stesso tempo credibile. Ogni dettaglio è ben contestualizzato, ogni scenario è linea con l’intera produzione artistica. La mano di Miyazaki si fa sentire, e il risultato è davvero incredibile. Una passeggiata in una città così alienante è un’esperienza videoludica da ricordare, anche grazie ad un impianto audio magistrale. La folla in preda al raptus, le urla provenienti da chissà dove, il tintinnare costante di una campana che ci fa raggelare il sangue. Le ambientazioni di Bloodborne sono così volgarmente vive da far venire la pelle d’oca. Le voci (comprese l’ottimo doppiaggio italiano) sono ben contestualizzate. Un doppiaggio che non vuole essere un elemento accessorio, ma parte integrante di un realizzazione artistica incredibile.
Impianto artistico decisamente non supportato da una realizzazione tecnica adeguata. Tralasciando una risoluzione, considerando la mole di dettagli presenti, abbastanza buona, lo stesso non si può dire per l’ottimizzazione. Criticati ampiamente già prima della sua ufficiale release, i tempi di caricamento di Bloodborne sono davvero impietosi. Frammentare così tanto l’esperienza di gioco, non la rovina di certo, però è davvero un enorme deterrente, soprattutto per chi magari non ha molto tempo o per chi, visto il livello di difficoltà decisamente alto, è costretto a ritrovarsi nella schermata di caricamento ogni cinque minuti. A fronte di un’ottimizzazione approssimativa, il gioco non si sforza nemmeno di venire incontro al giocatore, mettendo ad esempio un sistema di teletrasporto più efficiente. Vi basti pensare che prima di poter visitare una differente location, dovete necessariamente passare per Il Sogno del Cacciatore, una sorta di Hub centrale, praticamente il Nexus di Bloodborne. Problema ovviamente in parte mitigato dall’incredibile level design che a, conti fatti, rende inutile il teletrasporto all’interno di ogni “macroarea”. Se ciò non bastasse un frame rate leggermenete ballerino, un sistema di compenetrazioni rimasto invariato dal primo episodio e una telecamera ancora da migliorare, chiudono il quadro su un versante tecnico sorretto unicamente dalla magistrale realizzazione artistica.