Quando il lato grigio non è più così grigio
ualche tempo fa abbiamo parlato di come le serie TV stiano metabolizzando un certo disintegrarsi della figura degli eroi solitari. Una tendenza figlia dei suoi tempi, della caduta dei modelli del machismo tutto d’un pezzo e del progressivo avanzare delle fragilità individuali che finiscono per investire anche i protagonisti dei prodotti audiovisivi. Accennavamo anche alla figura di Boba Fett, il famigerato cacciatore di taglie partorito dalle idee di Ralph McQuarrie e Joe Johnson e risorto sorprendentemente nella seconda stagione di The Mandalorian, dopo essere stato masticato per diverso tempo nella pancia del Sarlacc su Tatooine.
E a balzare subito all’occhio furono principalmente due fattori, ovvero il suo arrivare a togliersi quasi immediatamente l’elmo e l’essere accompagnato in viaggio dalla maestra assassina Fennec Shand, entrambi elementi in apparente contrasto con la granitica – e tutto sommato bidimensionale – aura totemica di cui il personaggio aveva goduto per decenni. Non contiamo volutamente le apparizioni di infanzia e adolescenza del giovane Boba, che aggiungono contestualizzazione al personaggio ma si collocano lateralmente rispetto al calco impresso nell’immaginario collettivo.
Quando l’articolo uscì mancava ancora qualche giorno all’arrivo su Disney+ di The Book of Boba Fett, una miniserie incentrata sul cacciatore di taglie che dovrebbe fungere da una sorta di spin-off per la solidissima The Mandalorian dedicata alle peripezie di Din Djarin e del piccolo Grogu. Sette episodi creati e scritti da Jon Favreau, recentemente conclusi dopo un’altalena di emozioni da intendere nella maniera più sbilanciata possibile. A causa anche di una gestione degli archi narrativi che definire confusi è poco, certamente disorientanti e capaci di arrivare a smontare l’iconografia di un personaggio prendendone le caratteristiche fondative e andando a ricollocarle in traiettorie di significato pensate, però, per figure non così cementificate.
The Book of Boba Fett mi pare che agisca soprattutto in un modo, ossia andando a lavorare sulle scale di grigi. Boba Fett è sempre stato un cacciatore di taglie, concepito come un figurante che nella trilogia originale appare su schermo per una cosa come due minuti e ha appena quattro linee di dialogo sufficienti, per qualche ragione, a imprimerne a fuoco l’immagine dell’armatura, dell’elmo, del fucile. Possiamo definire la sua evidente ambiguità come un grigio-negativo. Non veniamo mai a pensare che sia una figura malvagia per indole, ma semplicemente che compia determinate azioni perché al soldo di un potere malvagio qual è quello rappresentato dall’Impero. Ma, di fondo, è solo il suo lavoro e la cosa iniziava e finiva lì, con la morte anche un po’ da fessacchiotto di un badass che ci appariva così perché così era disegnato (semicit.).
In un’era dell’intrattenimento che però vive di continui revival e di rimasticamenti di idee dal passato, era un’occasione troppo ghiotta non ripescare questa figura per donargli anche un dopo oltre al prima che viene tratteggiato nei fumetti e nelle serie animate di Star Wars. Ma un grigio-negativo non è più un qualcosa di presentabile o conforme alle sfumature di ambiguità di un personaggio che si è scelto di andare a porre più in prossimità dello spettatore, il quale deve quindi allinearsi alle ragioni e ai redenti desideri del nuovo Boba. Che poi, a guardare The Book of Boba Fett, verrebbe anche da chiedersi quali siano questi desideri, così evanescenti e schiacciati sotto il peso di una caratterizzazione che risente dell’eco figurativa dell’icona, nonostante i vari tentativi di donare un background fatti nel corso degli anni.
Il grigio-negativo viene quindi ammorbidito dando un volto e affiancando una partner – da lui salvata – in un’inversione di cariche morali che rende Boba un po’ un gigante dai piedi d’argilla. Il carisma scivola via con l’accantonare l’icona che, complice una scrittura della serie un po’ sciatta, non ha sufficiente spinta propositiva a giustificarne la nuova veste da protagonista dai contorni grigio-positivo che è chiamato a contrastare l’ingombrante passato nella memoria degli spettatori e ora anche le minacce all’interno della serie. Boba Fett non si capisce mai cosa voglia realmente, sempre in balia di impulsi sospesi nel mezzo tra il chiudere i conti con il passato e un presente che forse anche il personaggio vero e proprio stenta a comprendere.
A dire il vero questo scalare le gradazioni di grigio non è nulla di nuovo sotto al sole. Specialmente all’interno dell’industria hollywoodiana recente, dove vige l’imperativo categorico di accogliere più orizzonte di target possibile (le famiglie) e compiere scelte volte a deresponsabilizzare lo spettatore circoscrivendo per lui ogni cosa al suo posto. Ma insomma, non scopriamo l’acqua calda appunto. Un esempio lampante degli ultimi anni è però l’operazione portata avanti con il Joker diretto da Todd Phillips nel 2019. Non ne facciamo assolutamente una questione di merito o gusto, perché in primis io che sto scrivendo apprezzo moltissimo il film, ma ci è utile pensare all’Arthur Fleck di Joaquin Phoenix per capire questa tendenza.
Sebbene Phillips e Scott Silver, che di Joker hanno curato la sceneggiatura, abbiano preso ispirazione da fumetti seminali come The Killing Joke, hanno tracciato le origini del comico pazzo seguendo una loro inedita idea. Un’idea che va a pescare nella ragione, che si colloca in groppa a quella curva che tende al dover indagare le radici del male – che ci sta – per poi arrivare a trovarne i perché e i per come all’interno di uno scibile declinato nella colpa collettiva e di rimando nelle responsabilità individuali – che forse ci sta un po’ meno.
Un’opera di decostruzione degli archetipi che pare non poter più riconoscere il male come radicato nelle nubi del mistero, di una foschia grigia e affossata dalle incertezze di questo o quel racconto, bensì da far rientrare all’interno di uno steccato ben definito, da addossare a una causa di cui fare resoconto e, quindi, esorcizzabile. Anche il male, insomma, sembra passare sempre più da cariche totalmente negative a cariche negative-ma-più-positive, in uno sforzo a cavallo tra esigenze di allineamento drammaturgico e paure congenite di accettare anche nelle narrazioni certe storture in apparenza inspiegabili, insondabili.
Tornando a The Book of Boba Fett, mi sembra che un ulteriore tassello del discorso possa essere rintracciato anche nel ruolo conferito in questa miniserie al popolo dei Tusken. I Sabbipodi, quella scostante popolazione indigena di Tatooine che sta diventando un leitmotiv sempre più ricorrente all’interno della saga espansa di Star Wars, che nei deserti del pianeta sabbioso riconosce una sorta di culla del cosmo alla quale sempre si torna. Anche qua è centrale la caratterizzazione delle tribù che si sta portando avanti già da The Mandalorian e che in The Book of Boba Fett giunge a configurarsi come un elemento di trama fondamentale alla formazione del nuovo Boba e che ci permette di gettare un nuovo sguardo alla vita e alle attività di un popolo tutto sommato misterioso e che, per certe scelte prese dalla serie, ci risulta adesso più affascinante e vicino.
E a conti fatti il rapporto Tusken-Boba è forse uno degli elementi più riusciti, ma prosegue quel percorso di eliminazione dell’ambiguità nella quale anche i Sabbipodi ricadevano, essendo stati trattati nel corso dei decenni soprattutto sotto un’ottica di carica grigio-negativo. Pensiamo alla loro aggressività la prima volta che li conosciamo in Una nuova speranza, oppure quando rapiscono la madre di Anakin ne L’attacco dei cloni, dove comunque ottengono una sorta di risarcimento nella percezione morale nel momento in cui vengono massacrati indistintamente dal futuro Darth Vader. In The Book of Boba Fett si scava secondi principi di riequilibrio quasi da relativismo culturale, volti all’attenuare i tratti da grigio-negativo ponendo l’attenzione dall’interno, mettendo in nuova prospettiva determinate dinamiche e rapporti per arrivare infine a far mutare la percezione di un popolo di cui vengono fatti emergere i contorni per lo più da grigio-positivo (la famiglia, i legami, la tradizione).
E cosa ci resta, alla fine del percorso? La sensazione dello stridere di un modello, quello di un contro-eroe ambiguo, che dimostra la sua inadeguatezza nel momento in cui incontra la necessità di doversi andare ad adeguare a un nuovo standard. Un cortocircuito per alcuni versi paradossale che fa il giro e torna a confermare la figura dell’eroe solitario come elemento forte e persistente, che perde pezzi per strada, si fa goffo e a tratti grottesco quando gli è chiesto di fare altro in altro modo rispetto a quello con il quale è stato inizialmente concepito. In fin dei conti non puoi morire Mandaloriano quando nasci come Boba Fett, non puoi più competere su un terreno non pensato per te dove giochi carte che non sai leggere. Ma forse, solo forse, la colpa è di chi ti ci ha tirato in mezzo.