Un mix irrazionale, frenetico e dissacrante, fatto di veleni, proiettili e morti: questo è Bullet Train di David Leicht
ullet Train in transito.
Basterebbe dire che Aaron Taylor–Johnson è un serial killer tifoso del West Ham, oppure che Brad Pitt, per insultare un passeggero, esplode dicendo “Vai a pascolare cazzi” per farvi schizzare il cervello in sala, ma oggi saremo magnanimi e vi faremo capire come Bullet Train abbia rivisitato, nuovamente, il genere pulp.
Giappone.
Ospedale. Rabbia. Rancore. Promesse. Vendetta.
Stacco.
Tokyo, neon e Stayin –Alive in sottofondo.
Ladybug riceve una telefonata. È Maria, ha un lavoro per lui, deve rubare una valigetta.
Stacco.
Parte il treno.
L’ultima creature del folle cineasta David Leitch è un gioiellino di anarchia cinematografica, tra stile, omaggi, genialità e dinamismo.
David sa come si fa cinema, lui è un Thomas, non può essere un Diesel, lui è senza alcun dubbio un Thomas, anche Lemon sarebbe d’accordo.
I personaggi vengono scoperti sequenza dopo sequenza, tra omicidi, sparatorie e follia in digitale. Un Cluedo giocato in “speedrun” con elettronica e rock in sottofondo. Posto su un tavolo in una stanza vintage lasciata al buio e illuminata solamente da neon posti in maniera blasfema sulle pareti.
Tutto quello che vediamo è sacrilego e va veloce tanto quanto il treno proiettile che porta i nostri protagonisti, fermata dopo fermata, verso la stazione finale, nell’agognato tentativo di poter sopravvivere al boss finale – o destino, se preferite- perché non c’è altra scelta se non quella di andare ininterrottamente avanti. È pulp, c’è un deus ex machina che muove i fili invisibili tra i quali sono tutti vittime che vi inciampano e carnefici che li tirano.
Bullet Train è un incesto tra Pulp Fiction e Deadpool, con uno script esageratamente tarantiniano per le battute che fanno palpitare il cuore dello spettatore in sala. C’è tempo, è cadenzato, ma divorato. Sono tutti nemici del tempo. L’Orient Express della follia continua a correre mentre la Morte Bianca aspetta.
Stacco.
Arriva Bad Bunny. È arrabbiato. Perché? Non importa, cerca vendetta. Tutti la cercano, ma non Ladybug, lui voleva solo la valigetta.
La creatività è una dichiarazione di guerra contro la realtà e la monotonia della vita. Vedere Bullet Train è un dito medio contro i puristi del cinema. Non c’è logica, non c’è razionalità, c’è violenza, ironia e profanazione di ogni figura presente sullo schermo. Il pulp si evolve in un passaggio 2.0 dopo essere stato ingoiato dalla cultura vapor nipponica.
I movimenti di camera di Leitch sono taglienti e ci portano nel maelstrom di dinamismo e potenza che caratterizza tutte le sequenze di combattimento. Le pedine sulla scacchiera avanzano ognuno per conto proprio, verso una risoluzione finale grottesca e frizzante.
Sono usciti da Tekken, Street Fighter, dalle Bizzarre Avventure di JoJo. Sono caratterizzati in pochissimi minuti, anche attraverso gli stereotipi classici del genere action, ma con una consapevolezza che non ci fa prendere nulla sul serio, salvo la perizia della regia e della scrittura. I neon ci accecano.
Non c’è Vincent Vega, ma c’è Tangerine, non c’è Jules Winnifield, ma Lemon. Niente “motherfucker”, basta l’irrazionalità della violenza collettiva. Un unicum che proietta quest’opera in un sottogenere a sé stante. Un’opera che cannibalizza, omaggia, ruba e copia tanti elementi del passato e del presente. C’è la scrittura “italiana”, c’è la regia da cinefumetto, c’è la subcultura estetica e musicale odierna, c’è lo stile british contaminato da quello giapponese. Tutto è perfettamente incorniciato e messo su un pacco nella stiva del treno proiettile. Un regalo che arriva in sala senza mai annoiare, con due ore e mezza che volano in pochi secondi. Non serve molto, basta portare qualcosa di fatto realmente bene.
C’è tutto quello che non sapevate di volere sopra un Bullet Train
Non commettete l’errore, però, che tutto ciò sia semplicemente un grosso Taiyaki senza ripieno. L’anima di Bullet Train è presente, è viva, è magmatica e ribolle in ogni inquadratura, in un culto animistico che la trasporta anche nell’inanimato tra peluche, bottigliette d’acqua e snack al wasabi.
In Bullet Train tutto omaggia una linea stilisticamente ben radicata nella storia recente del cinema, ma capace ancora una volta di potersi evolvere. È fresco, dinamico e dirompente. Un calcio in faccia, una battuta urlata nell’orecchio e indirizzata a un pubblico senza filtri, tra conti di cadaveri, minacce e uccisioni irrazionali. Questo è pulp, non tanto perché sia effettivamente così sotto tutti gli aspetti stilistica, ma semplicemente perché vuole esserlo e te lo dice guardandoti negli occhi, con calma glaciale e un revolver calibro 22 puntato in faccia.
Guardalo. Sii un Thomas, non un Diesel.
Stacco.