Presentato fuori concorso al Torino Film Festival, Calibro 9 di Tony d’Angelo è il seguito diretto da Di Leo che ne snatura il senso e ne eredita solo il peggio
Il poliziottesco all’italiana è forse l’unico tipo di cinema di genere davvero connesso con il tessuto socioculturale del nostro paese. Perché ha saputo ragionare su e racchiudere, con alti e bassi, un periodo storico molto preciso attraverso lo strumento cinema, impostando di fatto un modo di trattare il crime prima soltanto italiano e poi genericamente europeo. Certo, è ovvio che si tratta di un genere decisamente spinoso e che ha forse in alcune battute banalizzato uno scenario drammatico, ma è innegabile che in alcuni suoi esponenti il cinema è decisamente di livello alto. Maestri come Fernando Di Leo e i fratelli Corbucci – per come hanno trattato la malavita, la mafia e il terrorismo – hanno lasciato un’impronta decisamente percepibile nella cinematografia mondiale (ne è un esempio su tutti Quentin Tarantino, che con citazioni più o meno velate non ha mai nascosto il suo amore per il genere).
Per questo, non lo nego, quando ho letto che Calibro 9 sarebbe stato disponibile per la visione durante il Torino Film Festival ero quantomeno incuriosito dall’idea di un seguito dell’intramontabile classico con Gastone Moschin.
L’idea di un ritorno a quell’impostazione è certamente una cosa che desta attenzione, e l’eventuale (e inevitabile) pensiero di una possibile influenza da parte delle moderne storie di crimine seriali italiane portate in auge da Stefano Sollima ha creato un’aspettativa decisamente alta per questo film.
Il film di Tony d’Angelo, però, si è presto rivelato un’operazione nostalgia fallita in partenza. Dall’originale e dal filone a esso collegato recupera solo la fascinazione per la criminalità, senza particolari ragionamenti di sorta intorno ma anzi relegando il tutto a tantissimi stereotipi che non aggiungono granché e finiscono per rendere la rappresentazione delle organizzazioni criminali italiane macchiettistica e decisamente fuori dal tempo. Calibro 9 non raccoglie nessun insegnamento da ciò che cerca di omaggiare e ne banalizza totalmente il contenuto.
Tutto questo viene portato su schermo prima di tutto da una storia totalmente inconsistente e figlia di una scarsa propensione al creare una connessione con il tempo in cui viviamo. Partendo dal protagonista della storia, l’avvocato Fernando Piazza (figlio di Ugo, il personaggio di Milano Calibro 9), che è costantemente in bilico tra una contemporaneità abbozzata e un passatismo retorico e poco profondo. Questo disequilibrio è portato avanti anche da altri dettagli del film e dalla trama stessa che tira in mezzo truffe telematiche per strizzare l’occhio ai giorni nostri e poi si concede retrogradi e dannose rappresentazioni del sud Italia con tavolate ricoperte da tovaglie a quadri ornate con pintoni di vino con il classico intreccio di vimini sul fondo.
Un lavoro che sembra non voler imparare da ciò a cui tenta di assomigliare ma che ne imita solo gli aspetti più evidenti. Il dialettalismo, per esempio, non ha un significato narrativo enfatico come abbiamo potuto vedere nelle varie implementazioni di Gomorra, ma viene usato forzatamente come tormentone per rimanere nella memoria di chi guarda senza preoccuparsi del perché. Del passato, poi, non riesce neanche a inquadrare i caratteri dominanti: manca infatti totalmente una colonna sonora accattivante come era nei film da cui deriva, così mancano in modo quasi assoluto degli appigli da dare a chi guarda per comprendere il tono. Tutto è invece ammantato da un lusso posticcio e poco lungimirante, che è contemporaneo solo perché bombardato da status symbol.
È anche l’intrigo internazionale alla base del film, e la conseguente guerra tra clan, a non essere credibile e a suggerire quella miopia di fondo che ho trovato praticamente in ogni dettaglio di Calibro 9. Ogni momento di trama è frutto di un ragionamento fatto a partire da stereotipi e presupposizioni che sarebbe ora che il cinema italiano superasse in favore di una ricerca più approfondita sulla materia che vuole trattare. Non c’è molto di originale o di davvero peculiare, neanche nelle scene di azione che dovrebbero essere un pilastro del genere: tutto è generico e campato per aria perché deve esserci, non perché serva.
Anche la scelta del cast sembra studiata a tavolino per suggerire che stiamo parlando di malavita e quindi per forza di cose debbano esserci determinate persone coinvolte: da Barbara Bouchet, chiamata in causa per interpretare lo stesso personaggio del film originale, a Michele Placido passando per Marco Bocci. Tutti i ruoli sembrano essere stati pensati per creare inevitabili collegamenti con cose del passato senza mai sforzarsi a chiedersi che significato avessero.
Per concludere Calibro 9 rappresenta in modo inequivocabile ciò che non dovrebbe essere un sequel cinematografico. Un omaggio che si limita a imitare le caratteristiche svuotandole dei significati senza mai porsi interrogativi o ragionamenti. Uno schiaffo all’unico genere cinematografico davvero italiano che non merita trattamenti così superficiali e dai valori produttivi così bassi che ricorda un’altra Italia forse peggiore di quella mafiosa: quella delle fiction crime. Un insulto al lavoro fatto per e con il cinema da Di Leo di cui davvero non se ne sentiva il bisogno.