Yoichi Takahashi con Captain Tsubasa ci ha raccontato storie di grande umanità, eppure noi ci ricordiamo solo della Catapulta Infernale
“Ma in Holly e Benji tutto è normale, anche il Giappone vince il Mondiale”: il ritornello della parodia dei GemBoy ce lo ricordiamo tutti ed è tra le prime cose che ci vengono in mente quando si parla di Captain Tsubasa.
Quello, o ciò che nell’era dell’internet e dei social network chiamiamo i meme, ma in realtà le battutine sulla lunghezza infinita del campo di calcio o sulla prospettiva che fa sembrare che i giocatori stiano correndo su una collina, o ancora sul fatto che, in fondo, di un torneo di calcio tra ragazzini delle elementari non frega niente a nessuno, figuriamoci alle televisioni, sono sempre state fatte.
Forse non ve ne siete accorti ma Captain Tsubasa è molto più di questo.
L’anime basato sul manga di Yoichi Takahashi arrivò in Italia nel 1986 col nome di Holly e Benji, tre anni dopo della prima messa in onda giapponese, e fece innamorare davvero tutti. Era un successo anche un po’ scontato, considerando quanto il calcio sia popolare nel nostro Paese, per cui tutti i ragazzini cominciarono a identificarsi nei personaggi del cartoon, non sapendo che non l’avrebbero mai abbandonato e che, a distanza di oltre trent’anni, nonostante in Italia sia arrivato relativamente poco materiale, lo avrebbero ancora guardato con nostalgia e ammirazione.
Ma se fosse stato un semplice miscuglio di prospettive discutibili e flashback nel bel mezzo di una rovesciata, difficilmente sarebbe rimasto impresso nella nostra memoria così a lungo.
Tsubasa Ozora e la dedizione al lavoro
C’è la storia di un ragazzino con un padre piuttosto assente, sempre in giro per mare. Nonostante ciò, pur di inseguire il proprio sogno, questo ragazzino sarebbe pronto ad accettare di lasciare la propria famiglia e il proprio Paese per volare dall’altra parte del mondo.
A Tsubasa viene fatta una promessa, presto infranta, ma anziché piangersi addosso e prendersela col destino e con gli altri, deciderà di lavorare ancora più sodo per arrivare dove si era prefisso.
Una storia di determinazione e caparbietà, che non si risolve semplicemente perché è il protagonista e deve avere il suo happy ending ma perché decide di non arrendersi e lavorare duramente, grazie alla dedizione al lavoro e all’immenso amore che prova nei confronti del pallone.
E ce lo mostra fin dalle prime battute, da quella partita contro la Muppet (pardon, il Meiwa) nell’esordio del torneo delle elementari, quando prende a muso duro un tipetto come Kojiro Hyuga (Mark Lenders) e gli fa capire che per lui il calcio non è solo un gioco. Il calcio è un sogno, è il suo sogno, la sua vita. E non sarà un bulletto con i risvoltini alle maniche a fermarlo.
Hyuga, il lutto e il sacrificio
E poi si scopre che proprio quel bulletto lì è ben altro che un mezzo tamarro dai discutibili gusti in fatto d’abbigliamento, ma un ragazzo a cui la vita ha tolto il padre troppo presto e che, nonostante la famiglia navighi in acque piuttosto agitate, dal punto di vista finanziario, gli ex colleghi ed amici di suo padre bussano alla porta per riscuotere dei vecchi debiti.
Così Hyuga, tra un tiro della tigre e l’altro, fa il ragazzo delle consegne, aiuta a scaricare i camion e svolge una serie di lavoretti per portare a casa qualche soldo, per poi badare ai fratellini piccoli e tornare ad allenarsi. Il tutto a dieci anni, quando per noi il massimo dello sforzo era staccare la cannuccia dal retro del brick del succo di frutta.
Peraltro, il rapporto tra Tsubasa e Hyuga è un’altra delle cose che spesso vengono sottovalutate dell’opera di Takahashi, ma racconta un altro grande insegnamento: lo sport unisce.
Il fatto di essere rivali non significa essere automaticamente nemici. Ok, magari i due non si sopportano più di tanto soprattutto quando si trovano ad affrontarsi prima alle elementari e poi alle medie. Sono due maschi alpha del pallone, i due capitani delle due squadre favorite per la vittoria finale, ed hanno due stili di gioco completamente diversi.
Così come la loro storia è diversa. Ma una cosa tra di loro non manca mai: il rispetto reciproco. L’uno riconosce ed ammira le qualità dell’altro. E alla fine, quando si ritroveranno ad essere compagni di squadra in nazionale, formeranno una coppia che farebbe la fortuna di ogni allenatore.
E allora chi se ne frega dei disegni spesso improponibili di Takahashi, di quelle gambe chilometriche a fronte di un torso minuscolo, e di quelle improbabili pettinature a banana, quando poi mi racconti una storia come quella di Jun Misugi (Julian Ross).
Che cosa ti manca per correre al prato
Perché mica è facile raccontare a dei ragazzini che non siamo immortali, che esistono le malattie e che inevitabilmente ne saremmo affetti anche noi. Jun è un bambino che aveva tutto: era cresciuto in una famiglia agiata, aveva avuto una buona educazione ed aveva un talento innato per giocare a calcio, il suo hobby preferito, che però di lì a breve non avrebbe potuto più praticare per via di una malformazione al cuore che lo avrebbe costretto a smettere, forse per sempre.
Ancora una volta, il destino. E ancora una volta un insegnamento che troppo spesso trascuriamo: mai piangersi addosso. Misugi sorride alla vita, chiede addirittura a Tsubasa di non riservargli trattamenti speciali solo per via della malattia.
Jun vuole il suo canto del cigno, un’ultima partita giocata ad armi pari. C’è di tutto nella storia di Misugi: c’è, di nuovo, la voglia di non rassegnarsi a un destino beffardo, e infatti dopo cicli e cicli di riabilitazione, il numero 14 del Musashi (la Mambo) arriverà perfino a giocare in nazionale.
C’è un viscerale amore nei confronti del calcio e dello sport in generale. C’è il dilemma morale non da poco affrontato da Tsubasa, che fa la scelta giusta perché rispetta troppo questo sport per “truccare” una partita. E c’è il rispetto reciproco tra due campioni, che hanno un sogno in comune e che dovranno sudare le proverbiali sette camicie per realizzarlo, anche se per motivi diversi.
From zero to hero
Perfino quando si percepisce la volontà dell’autore di mettere nel piatto una linea comica, si può trovare qualche insegnamento da trarre. Pensate a Ryo Ishizaki (Bruce Harper) o ancor prima a Manabu Okawa (Arthur Foster), il ragazzino con gli occhialoni, e tutti gli alunni della Nankatsu.
Diciamocelo senza mezzi termini: sono delle pippe clamorose. Ma nel momento in cui trovano qualcuno che creda in loro (Roberto), o che li sproni a migliorare (Tsubasa), loro rispondono presente.
Ishizaki poi è il classico esempio di come il duro lavoro alla fine paghi, anche quando non c’è un talento cristallino come base da cui partire. È il classico giocatore da “Una vita da mediano”, che per emergere deve contare solo sulle proprie forze, nato senza i piedi buoni, lavorare sui polmoni, faticando e sfruttando ogni occasione.
Ryo viene scelto per far parte della Nankatsu, ma come riserva. Quando tocca a lui entrare in campo per sostituire un compagno di squadra infortunato, al primo pallone toccato regala un autogol agli avversari.
Ma, ancora una volta, quando i compagni di squadra, spinti da Tsubasa, gli dimostrano di credere ancora in lui, anche lui comincia a sentirsi più motivato e ritrova la fiducia in sé stesso. Ishizaki il campo non lo lascerà più, ed arriverà a giocare dignitosamente perfino in nazionale anche lui. Il lavoro paga, come dicevamo.
C’è solo un capitano
Ed il lavoro, soprattutto quello di squadra, è anche il leitmotiv della storia di Hikaru Matsuyama (Philip Callaghan). Anche lui capitano di una squadra di scarsoni, ma amici da una vita e pronti ad aiutarsi l’un l’altro.
Matsuyama cresce tra le montagne, sopportando il gelo dell’isola di Hokkaido, dove pur di migliorare e cercare di arrivare fino in fondo al torneo di calcio, sperando di sfondare poi anche nel mondo del professionismo, si allena duramente anche sotto la neve.
Nonostante l’anime si chiami Captain Tsubasa, e abbia dunque un protagonista dichiarato fin dal titolo, probabilmente è proprio Hikaru Matsuyama quello che meglio incarna la figura del capitano. Prende per mano la squadra guidandoli in campo e in allenamento, si prende lui la responsabilità di calciare un rigore decisivo.
Ma ci mostra però anche un lato estremamente umano. È il suo errore ad aprire la strada alla vittoria del Meiwa, ricordandoci che a volte semplicemente le cose non vanno per il verso giusto, e in fondo la vita è interessante anche per questo. E ci fa vedere sentimenti che in un cartone animato spesso sono visti come negativi, come ad esempio l’ambizione, quando mette in riga proprio Tsubasa ricordandogli che la fascia di capitano del Giappone è stata affidata a lui, prima di regalarci un altro slancio di umanità ed umiltà, facendo un passo indietro e mettendo il bene collettivo avanti a quello personale.
Girare il mondo a dieci anni
Takahashi ci regala poi anche la splendida storia di Taro Misaki (Tom Becker). Misaki cresce con il padre, un pittore, che accompagna in tutte le sue trasferte in giro per il mondo. Da piccolo gira così praticamente tutto il Giappone, stringendo amicizie qua e là anche grazie al gioco del calcio.
Pensate a cosa dev’essere per un bambino crescere senza avere il proprio posto nel mondo. Oggi qui, domani lì, tra due giorni chissà, finché è lui stesso a spronare il padre ad accettare un lavoro in Europa, tutto un altro mondo. Misaki, che qui in Italia prendevamo in giro per la sua “sospetta” amicizia con Tsubasa, ci racconta una storia di sacrificio e di fratellanza, di voglia di conoscere il mondo, di viaggiare e di scoprire il diverso, e di non aver paura di fare esperienze nuove e di abbandonare la propria comfort zone.
Di storie da raccontare ce ne sarebbero ancora tante altre, perché come dicevamo, ciò che tutti conoscono, ossia le stagioni riguardanti il torneo delle elementari e quello delle medie, e la parentesi non troppo riuscita di Holly e Benji Forever, è veramente poca roba rispetto alla produzione di Takahashi su Captain Tsubasa.
Già solo leggendo il manga troverete tantissimi altri argomenti che magari non vi aspettereste di trovare in un fumetto sul calcio giovanile. Oltre al fatto che la gestione dei tempi delle partite ad esempio, è molto meno fastidiosa rispetto all’anime: se nel cartone una partita può durare anche dieci puntate, nel fumetto la cosa si nota molto meno, così come i flashback assurdi e quasi casuali di cui parlavamo prima, sono molto meglio indirizzati all’interno dell’opera cartacea.
Captain Tsubasa e la sua umanità
Nel manga si parla di relazioni a distanza, ad esempio, ma addirittura di razzismo, quando uno dei personaggi, Shingo Aoi, viene bollato come “scimmia giapponese” per via del colore della pelle e dei tratti somatici diversi, dall’italianissimo Salvatore Gentile. E forse, se già all’epoca noi italiani non eravamo visti esattamente come tolleranti, qualche domandina avremmo dovuto farcela.
C’è la storia di Schneider, cresciuto all’ombra del padre, quella di Genzo Wakabayashi (Benji Price), che arriva a farsi odiare di proposito dai compagni di squadra pur di fare da parafulmine e spronarli a migliorare; c’è la storia di Santana, che ci parla degli abusi subiti da bambino.
La stessa storia di Roberto Hongo (Roberto Sedinho) ci racconta di un uomo che all’improvviso si ritrova con una carriera finita, un serio problema di salute e una depressione che rischia di sfociare in una dipendenza dall’alcol. E noi scherzavamo sulla presunta liaison con la madre di Tsubasa.
Ci sono invece il lavoro, il sacrificio, la passione, la determinazione, l’elaborazione del lutto e della malattia, l’educazione, insegnamenti pedagogici, l’invidia, l’ambizione e la solidarietà.
Vi sembra poco?
Per fortuna il tempo è galantuomo e Captain Tsubasa sta vivendo una meritatissima seconda giovinezza. Il remake del cartoon è da poco arrivato nel nostro Paese, ed è tuttora trasmesso, anche se nel bizzarro slot della domenica mattina. In più è in arrivo il nuovo videogioco su PlayStation 4, Nintendo Switch e PC, che ha già mandato in hype tantissimi appassionati.
Senza contare che quest’estate in Giappone ci sono le Olimpiadi, la manifestazione sportiva più importante in assoluto e che vede tra gli sport praticati proprio il calcio giovanile, e chissà che non serva ad aumentare ulteriormente la ritrovata popolarità del franchise.
La stessa lega calcio giapponese ha subìto negli ultimi anni una bella impennata in quanto a popolarità, per via dell’ingaggio da parte di alcuni club giapponesi di campioni di primissimo piano del calcio europeo, Andrès Iniesta su tutti.
Insomma, è un bel periodo per essere fan di Captain Tsubasa, ma anche per iniziare a scoprirlo e soprattutto per rivalutarlo ed inquadrarlo sotto la luce giusta. Perché Yoichi Takahashi e la sua opera, probabilmente, meritano molto di più di battutine sulla Catapulta Infernale.