Hai collaborato per oltre dieci con Sergio Bonelli, insieme al compianto Paolo Morales. Cosa ti ricordi di questa esperienza? E com’era lavorare con Morales?
Per me lavorare con Paolo era la cosa più bella del mondo. Era un fratello, un padre, un partner di lavoro. Eravamo animali simbiotici, assolutamente complementari ed identici di carattere. Inoltre entrambi eravamo amanti del cinema, e questa passione dello storyboard artist, beh, non posso dire che me l’abbia trasmessa lui, ma sicuramente ha fatto da catalizzatore per trasformarla in mestiere. Dirò di più: per me lavorare con Paolo era talmente bello che era l’unica declinazione possibile, tant’è vero che la sua morte mi ha provocato una battuta d’arresto. A breve però riprenderò.
Quella del fumetto è solo una piccola parte del tuo mondo lavorativo. Hai accennato, ad esempio, alla tua professione di storyboard artist nell’universo cinematografico. Qual è la tipologia di produzione più difficile?
Sicuramente il fumetto. Lo dicono tutti: fare fumetti è e sarà sempre la cosa più difficile. Per il resto, tra illustrazione e storyboard parliamo di passeggiate in discesa. L’illustrazione perché devi realizzare un’unica immagine e, per quanto tempo possa volerci, finita l’immagine è finito il lavoro e si passa ad altro. Lo storyboard invece è talmente appassionante per me e amo talmente lavorare con i registi che non posso considerarlo come un qualcosa di complesso.
Tra l’altro hai avuto a che fare con registi di un certo calibro: Garrone, Guy Ritchie, Virzì, e tanti altri. C’è stato quindi un momento in cui da semplice spettatore sei diventato un addetto ai lavori. Questo ha modificato un po’ il tuo modo di vedere il cinema?
Sì, assolutamente, perché l’aspetto tecnico inizialmente ti trasporta, ma superata la barriera del Reef, una volta che sei in mare aperto, riacquisisci anche la capacità di vedere il film con gli occhi da spettatore vero. Magari mantenendo l’occhio clinico ed analizzandolo in maniera tecnica, pur se solo in un secondo momento. Per me è normale adesso notare immediatamente l’errore in una scena, ma al tempo stesso non mi sgancio dalla voglia di lasciarmi trasportare dalla storia.
In un intervento sul tuo blog paragoni lo storyboard ad un disegno tecnico. In pratica lo storyboard sta al fumetto come la sceneggiatura sta ad un’opera di narrativa. Come si riesce a raggiungere questo distacco, lasciando indietro l’artista per far emergere il lato tecnico?
Non so se effettivamente sia esagerato lo sforzo per raggiungere questo distacco, perché in realtà c’è una parte di “pancia”, una parte viscerale che fai comunque confluire nella realizzazione di uno storyboard, soprattutto se sei legato a tutto l’aspetto registico e a dover risolvere dei problemi di produzione. Quindi la parte creativa e quella autoriale le declini su quel fronte. Non si perde la componente artistica: è importante che il disegno mantenga l’aspetto più tecnico, perché andrà a finire nelle mani di persone che spesso non dialogano con chi l’ha fatto. Inoltre deve essere perfettamente comprensibile a chiunque, ma per arrivare a questo risultato bisogna anche fare un lavoro di sintesi ed espressività, per cui è necessaria una certa esperienza in ambito artistico.
In tal senso credo che sia stato complicato, nonostante la tua esperienza, approcciarsi ad esempio al lavoro sul film di Garrone…
È un pensiero comune, ma in realtà non è proprio così. Si pensa che lo storyboard debba trasmettere l’aspetto artistico e scenografico o l’atmosfera dei costumi. Per quegli aspetti lì invece ci sono altri ruoli, e ci sono inoltre altri disegnatori di servizio, come i visualizer che sono lì per un moment frame, ed il loro scopo è trasmettere l’atmosfera della pellicola in un determinato momento. L’importante quindi è ragionare sui problemi tecnici e sui vincoli di regia.
Una domanda dal cuore, da cinefilo: com’è lavorare con Wes Anderson?
Nel mio caso è stato molto piacevole. Io mi interfacciavo con lui solo quando doveva vedere i miei disegni, insieme all’art director ed al direction designer, e Wes Anderson era sempre stracontento quando vedeva arrivare Mark Friedberg, (il direction designer, appunto. N.d.R.), con i miei disegni. Si sfregava le mani come un bambino. Poi su di lui se ne sentono di tutti i colori, ma io ho bei ricordi. Diciamo anche che all’epoca doveva ancora entrare in questo Olimpo di cui fa parte adesso, e secondo me in questo momento è risucchiato nel gorgo dell’estetica pura ed eccessiva. Gli aspetti narrativi, fino a Moonrise Kingdom ancora tenevano, ma con Grand Budapest Hotel secondo me si è divertito in un continuo ciclo di espedienti per dare sfogo ad un trionfo estetico. Deriva anche dal fatto che ormai è una specie di icona.
Tornando al fumetto, c’è questa corrente dei “fumetti disegnati male”, che ha anche un buon seguito sul web. Cosa ne pensi? Sei dell’idea che l’immagine sia sempre subordinata alla storia?
Sì, la storia viene sempre prima di tutto, che si tratti di una pellicola o di un fumetto. Se io vado al cinema e vedo un film ineccepibile a livello di regia, ma la storia non funziona, non dirò mai che si tratta di un capolavoro. Stessa cosa per il fumetto: il disegnare bene o il disegnare male è secondario al disegnare in funzione della storia. Espressività non significa virtuosismo tecnico; basta l’energia narrativa dell’autore, che oltretutto negli anni viene compensata da un’evoluzione tecnica e stilistica che lo aiuterà sempre di più. Non mi sconvolge che i fumetti disegnati male possano avere un buon pubblico, perché se la gente si innamora di un certo tipo di narrazione, vuol dire che il cuore della storia passa a prescindere dal resto.
A proposito di pubblico, molti tuoi colleghi sono superpresenti sui social. Quanto è importante per un artista il contatto con la gente da questo punto di vista?
Io credo che siano importanti i rapporti in generale. Per alcuni funzionano i rapporti con il pubblico, altri invece sono bravissimi nei rapporti con gli addetti ai lavori, e si sanno sponsorizzare bene. Quello che fa da minimo comun denominatore è in ogni caso il rapporto. L’idea rinascimentale dell’artista che si strugge, che crea l’arte e poi un giorno verrà osannato non è assolutamente attuale.
Qual è l’autore che ti ha più influenzato, magari condizionando anche un po’ le tue scelte artistiche?
È una domanda da milioni di dollari. Ognuno di noi si innamora a fasi alterne di tantissimi autori, quindi ti lasci contaminare su vari fronti. Faccio un esempio banale: quando sei ragazzino ti può piacere un regista, poi magari inizi a disamorarti, per tanti motivi. A volte perché spesso anche i grandi registi cambiano o scadono, o magari semplicemente cresci e vedi le cose in maniera diversa. Quindi direi: tanti e in influsso continuo.
Se dovessi dare un consiglio a qualche giovane che vuole seguire le tue orme di storyboard artist, cosa gli diresti?
Disegnare tantissimo. Per quanto sembri facile realizzare dei piccoli sketch a matita, in realtà è difficilissimo mantenere uno standard di leggibilità, correttezza formale, correttezza semantica dal punto di vista registico, immediatezza ed espressività. E poi si deve divorare cinema dalla mattina alla sera, ma cercando di farlo non solo come spettatori, bensì iniziando ad interessarsi alla regia e a tutti gli aspetti del making of. Il disegno comunque è un fatto di cervello, ed è molto più questione di testa che di mano, e se dietro quella testa ci sono dei contenuti il confronto con il regista è sempre proficuo, mentre se sei un mero operatore, non è detto che poi il dialogo porti a qualcosa.