Piaccia o non piaccia, è innegabile che il team di Naughty Dog sia sempre stato fondamentale per Sony sin dalla prima Playstation, con la creazione di alcuni titoli in esclusiva di assoluta qualità e dall’inimitabile carica innovativa e stilistica. Crash Bandicoot fu una vera e propria icona per la PSX, e forse il primo titolo che viene in mente ripensando al concetto di platform uscendo dal recinto di Nintendo (e lasciando da parte anche il noto porcospino blu). Una delle priorità di ND è sempre stata quella di sfruttare le caratteristiche di ogni singolo nuovo hardware in maniera unica e impensabile fino alla generazione precedente. Sembra un concetto banale, ma in realtà è da sempre un modo di fare molto meno diffuso di quello che si potrebbe pensare. Nel 1999 salutato definitivamente il simpatico peramele con il divertentissimo Crash Team Racing, Naughty Dog si dedica ad una nuova ambiziosa IP: Jak and Daxter. E da questo momento ragazzi… parla il cuore. Sono profondamente affezionato a Jak and Daxter, perché penso sinceramente sia stato uno dei giochi meglio riusciti di quella generazione e uno dei migliori platform di tutti i tempi.
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Parliamo di un gioco rivoluzionario, un platform adventure open world con un mondo coerente coeso in ogni sua area e completamente esplorabile senza alcuna reale interruzione dovuta ai caricamenti, sapientemente nascosti e resi invisibili all’utente in modo da non interrompere mai l’azione. È stato senza dubbio uno dei pochi veri rivali di Super Mario 64 in termini di realizzazione tecnica e impatto ludico, pur conservando uno stile assolutamente personale. Partendo dal villaggio in cui cominciano le avventure di Jak e del suo amico Daxter, trasformato in una specie di “lontra” parlante dalla misteriosa sostanza Dark Echo, intorno alla quale gravita l’intero universo narrativo della serie, dovremmo esplorare l’intero mondo circostante alla ricerca di una cura per lo sfortunato amico e per scoprire i segreti della civiltà dei Precursor. Una trama semplice, nulla a che vedere con la complessità narrativa che Naughty Dog ha raggiunto oggi con giochi come Uncharted o The Last of Us. Nonostante questo, è proprio dal primo Jak and Daxter che il team ha cominciato a mostrare il proprio talento nell’imprimere una grande personalità, espressività, e caratterizzazione ai propri personaggi. Per riassumervi il risultato del loro lavoro nel più veloce dei modi, sembra con le dovute proporzioni, di trovarci di fronte ai protagonisti di un odierno film d’animazione digitale come quelli Pixar o Disney. Le animazioni, sia nelle scene pre-calcolate che durante le fasi di vero e proprio gameplay, sono fantastiche: Daxter è la più espressiva e divertente delle spalle, basti ricordare come ogni volta che cadete esanimi senza energia commenta in maniera esilarante la vostra “dipartita”, o come ad ogni comando impartito a Jak, come ad esempio lo spin kick (una sorta di calcio rotante), lo vedrete roteare insieme a voi cercando di rimanere ancorato alla vostra spalla per non volare via.
Nonostante sotto il nostro controllo ci sia solo il taciturno Jak (a cui daranno una voce dal seguito in poi, snaturando a mio parere, in parte il concept originale del personaggio) sembra davvero di non essere soli a vivere l’avventura, e il peso dato a particolari di questo genere, è davvero sorprendente considerato cosa era lecito aspettarsi da un gioco per PS2. Le ambientazioni di Jak and Daxter, seppur tendenzialmente tropicali ed esotiche, spaziano in una varietà davvero generosa di paesaggi. Ricordo con particolare affetto la Spiaggia delle sentinelle, una delle prime location del gioco da cui era possibile ammirare grandi tramonti, mettendo particolarmente in risalto le potenzialità del ciclo giorno-notte del titolo, altra poderosa caratteristica del comparto tecnico di Jak and Daxter. Il gameplay poi, non era certo da meno! Jak and Daxter rimane tutt’oggi uno dei migliori platform in termini di level design e bilanciamento nelle meccaniche. Jak salta, calcia e tira pugni in modo puntualissimo nei confronti dei nostri input; i livelli, sia quelli più bucolici e costruiti su vegetazione e asperità geologiche, sia quelli più futuristici e strutturati con piattaforme artificiali, si distribuiscono perfettamente tra semplici aree dedicate a enigmi ambientali (non fraintendete, tutta roba basata sulle nostre doti atletiche), collezionabili, e altre sezioni in cui le semplici basi del combat system e del platforming vengono “rinfrescate” da diverse variabili con power-up piazzati ad hoc per proporvi nuove sfide circoscritte ad un determinato frangente dell’esplorazione. Questi potenzialmenti sono rappresentati da globuli di echo di diversi colori che donano temporaneamente svariate abilità, come sparare palle di fuoco, diventare più veloci o aumentare il danno dei nostri colpi.
L’avventura scorre con un ritmo poche volte eguagliato, ai titoli di coda si ha la sensazione che tutti gli elementi siano stati distribuiti nel gioco in maniera perfetta, per donare ad ogni salto ed a ogni metro quadrato “virtuale” di area un senso compiuto. È stupefacente poi la coerenza che lega le aree. Certe cose che oggi notiamo, che so, in Dark Souls e che ci sembrano perle rare di game design, sono presenti anche in questo titolo del 1999. Ad esempio, passeggiando nella Giungla Proibita è possibile notare delle specie di “tentacoli spinati” uscire da alcuni buchi nel terreno. Assolutamente indistruttibili sulle prime, vi renderete conto solo battuto il boss di quella zona, una specie di pianta carnivora gigante collocata nel sottosuolo, che quei tentacoli sparsi per il livello gli appartenevano, e che una volta sconfitto, spariranno in tutta l’area di gioco, rendendovi l’esplorazione più agevole. Insomma parliamo di sorprendenti dinamiche di causa/effetto molto estese che non ci si aspetterebbe in un titolo che pur senza voler scavare oltre la superficie, mette già sulla griglia tanta ottima carne al fuoco.
Mi esalto per delle ingenuità, penserete, ma vi assicuro che era difficile trovare titoli analoghi che si impegnassero cosi tanto su questo fronte tecnico e di game design. Basti pensare che Mass Media, la compagnia che si è occupata di sviluppare il remake della trilogia di Jak and Daxter per PS3, ha dichiarato di essere rimasta sinceramente stupita dalla complessità del codice originale e del motore grafico del gioco, unico nel suo genere nella capacità di sfruttare un hardware come quello di PlayStation 2 (capacità che tra l’altro, i ragazzi di Naughty Dog conservano ad ogni nuova iterazione della console). Virando di prepotenza sui pochissimi difetti, ricordo un po’ di insoddisfazione per le poche boss battle, forse solo 3 o 4, o il fatto che avrei utilizzato volentieri maggiormente le due “cavalcature” disponibili in alcuni momenti molto circoscritti ma divertentissimi (si trattava di una specie di moto volante e un pennuto dall’aria stralunata). Ma parliamo di piccoli nei in quello che è a tutti gli effetti un capolavoro, un gioco che esorto TUTTI, soprattutto i più giovani che avessero questa lacuna videoludica, a recuperare, almeno nella sua edizione rimasterizzata. Il gioco ha avuto due seguiti a parer mio assolutamente validi ma… mi spiace, che non valgono un’unghia del primo inimitabile capitolo. Jak 2 e 3 stravolgono la formula originale pura, semplice e perfetta nella sua “rotondità assoluta”, contaminando la struttura con elementi presi dai free roaming, gli shooter, e i giochi d’azione, cambiano i toni dell vicende rendendoli meno spensierati e più seriosi, forse primo sentore della deriva più matura e cinematografica che intraprenderà Naughty Dog da questo momento in poi. Ribadisco: due giochi validi, ma decisamente inferiori al brillante, leggero ma assolutamente mai ingenuo, Jak and Daxter. Forse, e qui mi sbilancio, ultimo grandissimo fuori classe e baluardo del genere fuori dai lidi del baffuto idraulico di Nintendo.