Come la tecnologia, le mode e il marketing influenzano il character design dei personaggi videoludici
La forma veicola un significato anche nei casi in cui questo non è strettamente voluto. Quello che viene diffuso è allora un senso stratificato e plurivoco che, nel caso dei personaggi-avatar videoludici, scorgiamo riflesso non solo nel loro lato estetico ma anche in quello ludo-narrativo. Ovvero: il come della rappresentazione non impatta esclusivamente su questioni pertinenti a una possibile o meno gradevolezza visiva di una determinata figura posta di fronte ai nostri occhi, ma coinvolge massivamente anche il rapporto esperienziale ed emotivo fra il mondo virtuale, i fantasmi binari che vi abitano e gli eventuali fruitori.
Per questo motivo, abbiamo pensato di riflettere intorno alle possibili prospettive future per quanto riguarda il character design e il sempre più frequente uso di attori digitalizzati in sostituzione di personaggi “originali”.
L’importanza del character design: fra editor, fotorealismo e uso del motion capture
Avere fra le mani un protagonista iconico, carismatico e piacevole nel suo design è sicuramente un plus non da poco per qualsivoglia prodotto videoludico. L’anonimato, quando non specificatamente giustificato da un’idea o da un concept particolare, difficilmente piace e ben che meno garantisce il successo di un brand o di una nuova IP (basti pensare all’importanza capitale del fattore identitario e di riconoscibilità di personaggi come Mario, Master Chief o Bayonetta, per esempio).
D’altra parte, la questione non si limita al potenziale valore economico dietro a queste scelte, ma investe in pieno il funzionamento ludico e il portato narrativo che una specifica morfologia porta con sé: dotare un personaggio di un peculiare e originale design significa innanzitutto renderlo la prima fonte di accesso informativo a possibili meccaniche e caratteristiche di gioco (si pensi al roster dei personaggi dei picchiaduro, emblematico lavoro di caratterizzazione volto a unire aspetto esteriore e stile di combattimento utilizzando il minor numero di input possibili) ed, in seguito, arricchirlo di valori e messaggi ben specifici che si pongono come veri e propri strumenti del racconto capaci di stabilire delle connessioni relazionali e di aumentare il coinvolgimento con un mondo alternativo perfettamente credibile.
Ovviamente il character design, con i suoi bisogni e i suoi obiettivi, si è evoluto e modificato nel corso del tempo; anche e soprattutto in virtù del potenziamento tecnologico che ha necessariamente offerto nuove possibilità ma altresì spostato l’attenzione delle software house verso esiti non sempre espressioni di un giusto (e a volte miracoloso) compromesso fra la potenza computazionale in dotazione e un certo gusto artistico.
Perfino il crescente e sempre più elaborato utilizzo di editor per la creazione dei personaggi è un curioso e importante caso in cui, per forza di cose, la complessità di un design unico e studiato nei minimi dettagli è sacrificata sull’altare dell’immedesimazione e della personalizzazione come elementi di maggiore libertà offerta al giocatore, il quale altro non potrà che esprimere il proprio (e legittimo) gusto estetico seguendo però le limitatezze dello stesso editor e del proprio bagaglio di sensibilità e conoscenze personali.
Ma è con l’aumentare del bisogno di fotorealismo che scorgiamo quello step decisivo che molto spesso (ma non sempre per fortuna) allontana il “tradizionale” lavoro di ricerca di originalità, volontà di stupire e di commistione delle più svariate influenze, per ripiegare su una ben più impattante dimostrazione di muscoli digitali e di mimesi. Di base non c’è nessun problema: una bella grafica è senz’altro piacevole a vedersi e ha un fascino estremamente invitante; anzi, particolari generi videoludici aumentano la loro efficacia proprio grazie a questa vicinanza con il reale (i simulativi sportivi, ad esempio).
Tuttavia, è impossibile non considerare anche l’altro lato della medaglia: vale a dire una certa pigrizia creativa e il rischio di standardizzazione che questa tensione retinica spesso comporta. Particolarmente nei casi in cui l’esempio realistico limita la sperimentazione nel campo del fantastico e dell’immaginativo, nonché la profondità delle soluzioni per cui un disegno risulta vincente proprio in virtù dell’equilibrio raggiunto (fra esigenze artistiche, computazionali, narrative, ecc) dai tratti elementari che lo compongono: nella modellazione di un volto non conta soltanto il numero di poligoni presenti ma anche la qualità e l’originalità con cui essi vengono “plasmati”.
Un ulteriore sviluppo in tal senso lo possiamo rintracciare nell’utilizzo del motion capture (e chissà il futuro cosa potrà regalarci) per restituire animazioni e movimento sempre più realistici ai personaggi videoludici. Anche qui ci troviamo di fronte a strategie comunicative (cioè di ciò che si vuole comunicare aumentando il senso di realismo e di fedeltà col reale) che coniugano esperienze straordinarie a esiti non sempre eccezionali, i quali presentano un character design non all’altezza dell’investimento tecnologico posto in essere. Siamo sempre alla ricerca del bordo di quell’ipotetica soglia in cui l’intersezione fra qualità e quantità dovrebbe porsi e suonare armonicamente, invece di “scordarsi” verso mete sempre più anonime e meno attente a sfruttare le peculiarità del medium videoludico e alla realizzazione di elementi unici e innovativi.
Come ti digitalizzo l’attore: pigrizia e tasche gonfie
Giunti a questo punto non rimane che chiamare in causa l’ultimo tassello di questa riflessione, ovvero la pratica sempre più diffusa di utilizzare attori reali come personaggi dei videogiochi. Siamo nel campo della digitalizzazione di persone in carne e ossa che prestano le loro fattezze e la loro voce per dare vita a proprie repliche virtuali. Un’abitudine sempre più diffusa che non può non ripercuotesi sul valore autoriale, artistico e ludico, che il design di un personaggio possiede; soprattutto quando quest’ultimo non deriva da un percorso creativo ex novo (influenzato o meno dalla cultura e dagli stimoli che ci circondano) ma è la trasposizione esatta di tratti fisionomici che prescindono da tali processi.
Insomma: che esistono al di là di un’idea o di un lavoro intersemiotico sulle forme e che svogliatamente possono essere catturate in blocco e inserite all’interno di un prodotto culturale senza che quest’ultimo possa trarne effettivamente vantaggio da tale operazione (senza considerare la pericolosità di affidarsi al valore reputazionale di “un’immagine” che può essere compromessa in ogni momento: chissà come sarebbe andata fra Activision, Call of Duty: Advanced Warfare e Kevin Spacey se la pubblicazione fosse avvenuta giusto qualche anno più tardi).
E che quantomeno, nella maggior parte dei casi (gli esempi virtuosi sono pochi, al netto dei pochi ruoli cuciti intorno a specifici attori esistenti), rispondo esclusivamente a logiche di mercato: tenendo in forte considerazione (ma essendo un’industria non è strano immaginarlo) il ritorno economico e pubblicitario che l’utilizzo di un attore/attrice famoso/a, mito e idolo delle masse, può dare loro, i grandi publisher e le case di sviluppo ponderano queste scelte assecondando i trend del momento e il surplus di attrattiva che da esse derivano.
È naturale immaginare l’impoverimento che una “cipolla” estrosa e fantasiosa del genere subisce sfogliata dei suoi strati interni per emergere con la sua sola buccia esteriore: la potenza espressiva e contenutistica dietro alla profondità di un buon character design viene sostituta da un costrutto significativo completamente estraneo, denaturato, e che limita la libertà creativa degli sviluppatori dovendosi rifare a un immaginario pre-confezionato.
Digitalizzazione degli attori: qualche (futuro) aspetto positivo
Nonostante le preoccupazioni e i timori sopra espressi, non tutto è perduto. O per meglio dire: non tutte le prospettive evolutive future nascondono esiti funesti per la crescita di questo settore. L’inquietudine maggiore, infatti, proviene dall’ipotizzare come realtà futura il peggiore degli scenari possibili: vale a dire, quello nel quale la maggior parte delle produzioni circoscriveranno l’utilizzo degli attori digitalizzati in virtù della loro fama e celebrità, ignorandone di fatto capacità e competenze attoriale; considerandoli, insomma, come dei bei manichini da vendere.
Uno scenario interessante, invece, potrebbe risultare quello nel quale, di fianco al lavoro di caratterizzazione di personaggi inventati, possa nascere una figura come quella di un vero e proprio di “attore videoludico”. Ovvero, attore professionista che matura la sua preparazione con il preciso scopo di performare un ruolo all’interno di un videogame: non più attore di cinema, di televisione, o di teatro, prestati (anche un po’ svogliatamente) ai videogiochi, ma nuove figure preparati con il preciso scopo e obiettivo di fornire un altro tipo di spessore recitativo assecondando le peculiarità del mezzo videoludico. Di conseguenza, perché no, poter arrivare un giorno a dire «compro x titolo perché ci recita l’attore/attrice y», oppure «chissà se con questa interpretazione riuscirà a vincere l’Oscar».
Un futuro in cui le discipline e le arti attoriale (come molte altre già fanno) lavoreranno in funzione e in comunione con il videogioco, senza dimenticare l’importanza del lavoro di ideazione e di caratterizzazione dei personaggi.