La serie HBO ripercorre cause e conseguenze dell’incidente nucleare di Chernobyl del 1986 e porta lo spettatore a interrogarsi sulla situazione attuale
Chernobyl è una miniserie di cinque episodi di un’ora ciascuno, prodotta da HBO in collaborazione con Sky, trasmessa in Italia su Sky Atlantic a partire dal 10 giugno. Ripercorre l’incidente alla centrale nucleare di Chernobyl del 26 aprile 1986, concentrandosi soprattutto su come la crisi è stata gestita per evitare che il già catastrofico bilancio si facesse ancora più pesante. Ma pur trattando di un evento storico che è stato ampiamente studiato in oltre trent’anni, non manca di lanciare un messaggio forte per gli spettatori di oggi.
Il disastro di Chernobyl: dopo, prima e durante
Il primo episodio di Chernobyl non si apre, come ci aspetterebbe, mostrando la centrale nucleare e le operazioni che hanno portato a quella fatidica esplosione del reattore: comincia proprio con quell’esplosione vista a distanza, dalla vicina cittadina di Prypiat. L’autore Craig Mazin ci mette quindi davanti al fatto compiuto e pone tutti i suoi personaggi principali di fronte alla gestione dell’emergenza. Dapprima i tentativi di minimizzare e tenere nascosto l’incidente, fino a quando le conseguenze di quanto accaduto non iniziano a farsi evidenti anche al di fuori dei confini.
Nel corso della prima puntata e con l’inizio della seconda vengono presentati tutti i protagonisti: Valerij Legasov (interpretato da Jared Harris), direttore dell’istituo Kurchatov per l’energia atomica, che viene interpellato come consulente per investigare sull’incidente; Boris Shcherbina (Stellan Skarsgård), vicepresidente del consiglio dei ministri dell’Unione Sovietica, a cui viene affidato il compito di gestire la crisi; Ulana Khomyuk (Emily Watson), fisica nucleare di Minsk che scopre in autonomia quanto avvenuto e intuisce le possibili conseguenze; Lyudmilla Ignatenko, moglie di un pompiere di Prypiat intervenuto a spegnere l’incendio iniziale alla centrale nucleare e sottoposto a un massiccio avvelenamento da radiazioni; Anatolij Dyatlov, Viktor Bryukhanov e Nikolai Fomin, responsabili tecnici e amministravi di Chernobyl.
Dopo le prime terribili ore subito dopo l’incidente, la serie segue gli sviluppi nei giorni e nelle settimane successive, quando l’esigenza di contenere i danni si fa sempre più pressante, esasperando lo scontro tra le necessità politiche espresse intorno ai tavoli da conferenza e gli allarmi lanciati dagli esperti, Legasov e Khomyuk in testa. È solo nell’ultima puntata, durante il processo pubblico nei confronti dei responsabili della centrale, che vengono ripercorse le tappe che hanno portato al disastro. La scelta di non mostrare fin dall’inizio lo svolgersi dell’incidente può sembrare contro intuitiva, ma in realtà dopo aver già visto quali sono le conseguenze anche a lungo termine di quel singolo momento, vedere i minuti subito antecedenti all’esplosione è ancora più traumatico, e nonostante si sappia già cosa sta per succedere, non si può fare a meno di implorare la storia perché non prenda quella direzione.
L’accuratezza storica di Chernobyl
Quando si basa una storia su fatti realmente accaduti bisogna sempre accettare un qualche livello di compromesso tra la realtà storica e le necessità di produzione e messa in scena. In questo senso, Chernobyl se la cava egregiamente: la ricostruzione è pulita, cruda quanto basta senza eccedere troppo in particolari gore, anche laddove con qualche immagine più esplicita ci sarebbe stata l’opportunità di indurre uno shock ancora maggiore negli spettatori. La regia di Johan Renck però non ne ha bisogno, perché i fatti sono già abbastanza disturbati in sé, e si concentra piuttosto sui personaggi e dettagli dell’ambientazione. Apprezzabile anche il lavoro su scenografie e costumi, che mostrano una versione degli anni ’80 lontana da quell’epoca patinata a cui ci stanno ultimamente abituando film e serie tv che indulgono invece nella componente nostalgica: questi sono gli anni Ottanta al di là del muro di Berlino, che all’epoca era ancora in piedi e prometteva di rimanerlo per sempre. La soundtrack soffocante ma mai invasiva di Hildur Guðnadóttir completa l’opera, ponendo lo spettatore in uno stato di tensione costante.
Anche dal punto di vista dell’aderenza ai fatti, Chernobyl fa un lavoro eccellente. Craig Mazin si è basato sulle numerose pubblicazioni e su alcune interviste di prima mano ai sopravvissuti di Prypiat, e a suo dire nei casi in cui si è trovato con due versioni contrastanti ha scelto sempre quella più prudenziale, puntando a non drammatizzare eccessivamente la vicenda. Tutti gli eventi mostrati corrispondono in buona sostanza a quanto realmente avvenuto: la dinamica dell’incidente, l’intervento di Legasov e Shcherbina, la ricerca del marito disperso di Lyudmilla, le azioni di evacuazione e le operazioni nella “zona di alienazione”, l’impiego di sommozzatori e minatori. Anche l’aspetto fisico di molti personaggi è riprodotto al meglio, e certe scene sembrano riprendere proprio alcune vere immagini dell’epoca.
Ci sono solo due notabili eccezioni a questa accuratezza storica. Innanzitutto Ulana Khomyuk, che è un personaggio di fatto inventato, pensato per rappresentare la comunità scientifica che subito dopo il disastro si è dedicata in prima persona a studiare il problema e le possibili soluzioni. In secondo luogo, il processo finale ai colpevoli, che si è svolto davvero ma senza la presenza di Legasov, Shcherbina e, appunto, Khomyuk. Era necessario però a quel punto concludere la storia rimettendo in primo piano i protagonisti, e se pure questo momento non si è svolto nel modo esatto in cui viene proposto, gli interventi di Legasov corrispondono a quelli da lui lasciati nelle registrazioni su nastro diffuse prima del suo suicidio.
Niente eroi né cattivi, solo uomini: la lezione valida ancora oggi
La bussola morale di Chernobyl è tutt’altro che stabile. Se da una parte si possono facilmente individuare personaggi positivi (Legasov, Khomyuk) e altri negativi (Djatlov, l’ufficiale del KGB), è più complicato individuare eroi e villain. Legasov si trova spesso in difficoltà nell’affrontare la situazione che gli è piombata addosso, ed è più volte costretto a mentire o rappresentare una realtà diversa. Le decisioni prese da Shcherbina comportano in molti casi la morte, immediata o lenta, di molte persone. Anche Dyatlov, Bryukanov e Fomin, che saranno condannati a dieci anni di lavori forzati, vengono comunque presentati come persone incastrate nella loro posizione, capri espiatori che pur con le loro colpe e negligenze non avrebbero potuto comportarsi in modo diverso con le informazioni a loro disposizione.
Il discorso finale di Legasov durante il processo verte proprio su questo. Dopo aver descritto l’origine dell’incidente, provocato da una serie di concause difficilmente rilevabili, alla fine non addossa la colpa a una o più persone, ma all’intero sistema: quel complicato apparato che ha bisogno di segreti, bugie e connivenze per mantenersi in piedi, e che ha portato i suoi singoli componenti, le persone, a fare le scelte sbagliate nel momento sbagliato. Sarebbe facile interpretare Chernobyl come una serie sulla miopia dell’Unione Sovietica o sui pericoli dell’energia nucleare, ma sarebbe anche superficiale. Il messaggio finale è molto più profondo, e molto più attuale.
Si può pensare che dopo più di trent’anni non ci sia niente da imparare dal disastro di Chernobyl, ma Craig Mazin dimostra che non è così. Nella parole che Legasov rivolge alla corte, e poco dopo, girandosi verso il pubblico in aula, allo spettatore, colpiscono forte. Negare i fatti, nascondere la verità inconfutabile, scientifica, per adeguarsi a un qualsiasi tipo di ideologia o per compiacere un Sistema che ha bisogno di ignorare i problemi per continuare ad autoalimentarsi, non può portare che a un unico esito: la catastrofe. E anche se non viene mai esplicitato, il parallelo è fin troppo evidente con una certa tendenza attuale che ci porta a nascondere o dimenticare quelle scomode verità sulle condizioni del pianeta, che già conosciamo da ben prima del 26 aprile 1986.