Christian, la nuova serie TV di Stefano Lodovichi distribuita da Sky non è certo esente da difetti. Eppure funziona grazie a una formula accattivante
irca un anno fa vi avevamo parlato bene de La stanza, un particolare e ambizioso psico-thriller disponibile su Prime Video, che era di fatto un one location movie dall’impostazione quasi teatrale, in cui vi era spazio un po’ per tutto, persino per i viaggi temporali.
Ambizioso, abbiamo detto, seppur certo non esente da difetti, ma di sicuro non banale.
Alla regia c’era Stefano Lodovichi, che si era già distinto nel grande schermo con In fondo al bosco, ma soprattutto in TV, dirigendo i primi episodi de Il cacciatore, probabilmente uno dei migliori serial italiani di sempre.
Ed è proprio sul piccolo schermo che Lodovichi torna a mostrarci le sue qualità con Christian, un prodotto che, come nel caso de La stanza, rifugge dalla banalità e cerca nell’ambizione e il rischio la sua strada verso il successo. E ovviamente si affida agli impeccabili servigi di Edoardo Pesce, come per il film sopraccitato e come per Il cacciatore, in cui l’attore interpretava Giovanni Brusca.
Ma cos’ha Christian di così particolare, da distinguersi da buona parte della produzione nostrana, che pecca invece troppo spesso di ripetitività?
Prima di rispondere a questa domanda, va precisato che – a onor del vero – a differenza dei prodotti già elencati, qui Lodovichi entra a far parte del progetto solo per la regia, affiancato peraltro da Robeto ‘Saku’ Cinardi, conosciuto maggiormente nel mondo dei videoclip e che qui dirige anche uno dei sei episodi, ma di fatto ideatore di questo serial insieme a Enrico Audenino e Valerio Cilio. Poi specifichiamo anche che Christian è liberamente ispirata alla graphic novel Stigmate di Claudio Piersanti e Lorenzo Mattotti.
Detto questo, iniziando la visione della serie TV, scopriamo subito che è ambientata nel Serpentone di Corviale, un complesso residenziale della periferia romana, noto per le difficili condizioni in cui purtroppo versano molti dei suoi abitanti e già utilizzato come “set” per altri film o prodotti per la TV. Sappiamo inoltre che il protagonista (Christian, appunto) interpretato da Pesce, è uno scagnozzo del boss locale, tale Lino (Giordano De Plano), che ha cercato di “riqualificare” a suo modo la zona, ovvero dando a molti lavoro nelle sue attività criminali. Quindi Christian è un picchiatore, e la serie TV parla di droga, malavita e criminalità.
E allora a maggior ragione potreste chiedervi: cosa cambia rispetto alla metà delle altre produzioni italiane degli ultimi 20 anni?
Sono Lodovichi & co. a dare a quest’opera un risvolto assai diverso, inserendo una componente spirituale che sa di rivoluzione. È vero che il sovrannaturale che incontra il genere criminale non è qualcosa di totalmente nuovo nel panorama italiano, dal momento che già Mainetti aveva percorso questa strada con Lo chiamavano Jeeg Robot, ma lì si virava su sfumature ben più supereroistiche, mentre Christian stupisce proprio per la scelta di guardare in alto, nel vero senso della parola.
Tra sacro e profano
“C’hai fatto caso che i santi morono sempre da giovani?”. Questa è una frase che in un certo senso incarna lo spirito dello show, mostrandoci la sua natura ambivalente, fatta di spiritualità e più classiche ambientazioni gangster, con un linguaggio popolare. Usare un tracciato sicuro per provare una macchina nuova, sostanzialmente. E la macchina di Lodovichi corre spedita nell’arco delle sei puntate, ottenendo un grande successo di pubblico.
Il regista, pur conscio delle qualità e della bontà del progetto, si è anche un po’ stupito di tutto ciò, come conferma una sua intervista rilasciata a Today, in cui afferma che i prodotti ibridi, che di solito non sono né carne né pesce tendono ad essere dei fallimenti.
“È estremamente difficile riuscire a tenere tutto in equilibrio sulla bilancia, ma noi ci rendevamo conto in ogni fase – dalla scrittura alla lettura dei copioni e alle prove – che tutti ci sentivamo in armonia con questa bilancia”.
Impossibile dargli torto, perché Christian funziona. Non dovrebbe funzionare, ma funziona. Un po’ come la famosa legge del calabrone, che non dovrebbe volare ma non lo sa e allora vola lo stesso, la serie combina due ingredienti così distanti tra loro, così difficili da abbinare, riuscendo a dargli un sapore niente male, a renderli “boni”, come la carbonara.
Eppure, nonostante la meraviglia del soggetto, lo script finale ha i suoi difetti e le sue imperfezioni. Ad esempio non c’è un plot twist manco a pagarlo oro e ogni sequenza è piuttosto telefonata. Pure la scrittura del personaggio di Matteo, impersonato da Claudio Santamaria, è troppo deficitaria e il suo talento risulta sprecato.
Quando però vediamo Christian sulla scena, far tornare in vita persino un serpente, ci dimentichiamo di tutto e veniamo totalmente assorbiti dalla stravaganza del racconto, complice senza dubbio un ritmo sempre pressante e la scelta di gestire la narrazione nell’arco di sole sei puntate.
Infine, Christian funziona anche per come tratta l’ambiguità dell’essere umano, eternamente combattuto tra bene e male, indeciso se seguire i consigli dell’angelo o quelli del diavolo.
Qualcosa di tremendamente affascinante, che assume anche qui una deriva gangsteristica, spalancando le porte a un nuovo regno in un finale intenso (e aperto a un possibile proseguimento) in cui emerge il lato più umano dell’uomo Christian: la vendetta.