Dai primi generi all’evoluzione della serialità, in un ritorno e allontanamento costante tra temi e generi
Se la serialità è diventata uno dei temi più caldi degli ultimi anni spettatoriali, poco è stata trattata la circolarità con cui temi e argomenti tornano a invadere il piccolo schermo. Che si tratti di tv via cavo o rete pubblica, che si passi alle ormai più consuete scatole streaming a cui tutti noi siamo più che abituati o ci si dedichi a una seduta sul proprio divano, le serie che hanno nel tempo infoltito le library di canali online o televisivi, a pagamento o gratuiti hanno avuto, nello scorrere degli anni, un loro presentarsi, morire e rinascere.
Una stagionalità che può durare il tempo di dieci, tredici, venti puntate o trascinarsi nello scorrere del tempo ripresentandosi come nuovo, lindo e pinto dopo aver lasciato sedimentare una conoscenza che tenterà di ripresentarsi come nuova.
L’evoluzione delle sitcom
E come non pensare che la sitcom, tra i prodotti di fruizione più amati dal pubblico generalista e non, ha le sue radici in anni passati, passatissimi, segno di un tempo che non solo è lontano, ma che nella sua distanza permette di stabilire una struttura che è la stessa che è stata riproposta per i personaggi in avvenire.
Era I Love Lucy con la pioniera Lucille Ball la serie che ha stabilito i dettami della struttura della sitcom così come la conosciamo oggi. E ha insieme lanciato una delle prime vere icone femminili della piccola serialità, una donna che è riuscita a conquistare cinque Emmy Awards e l’amore di un pubblico tutto che l’ha iscritta negli annali.
Tradizione, quella di I Love Lucy, che ha prescritto quindi non solo teoricamente principi specifici e instaurati nel tempo, ma che ha visto la serie prototipo delle sitcom che si sono presentate nel proseguire dei decenni, cambiando però i loro protagonisti e valori. Se la prima, pur sempre affollata, viveva principalmente della sua eroina Lucy, con lo spingere degli anni la sitcom è venuta a mostrarsi in una veste di maggiore coralità, che ha compreso anche produzioni “singole” di star come La tata e Willy il principe di Bel Air, ma che non hanno potuto fare a meno di vivere senza i loro necessari comprimari.
È quindi la coralità che ha invaso la comedy della tv soprattutto in quei 90s. Gli anni ’90 di Friends e di Seinfeld o del più tardo e piccante Sex and the City hanno indetto il principio per cui la famiglia è quella che ti scegli, gli amici sono coloro che invaderanno la tua vita. E così abbiamo lasciato che le sitcom stracolme di personaggi – benché fissi e insostituibili -, occupassero le nostre giornate, ci accompagnassero nella nostra vita mentre noi scrutavamo nella loro. Serie che hanno concesso al tempo di trascorrere e di vedere i cambiamenti che le persone possono attraversare e attraversarli, così, insieme a loro, per una serialità che crea un unico, grande gruppo, di cui sentirsi parte.
Il bisogno di un rifugio amicale, di esperienze da condividere insieme a un circolo di amici, che la serialità ha ripreso con lo stampino già pochi anni dopo il finale di una serie decennale come Friends, arrivando nel 2005 con la lunga strada di How I Met Your Mother e una sorta di circolarità che promette una nuova apertura ad ogni suo chiudersi. Il tutto per storie che siano a camera fissa o ad ammiccamento documentaristico (Modern Family, The Office, Parks and Recreation altro stile caratteristico di un preciso momento della comedy, concentrato e apparentemente passato), che durino poche stagioni o per tempi decennali.
L’altro genere delle serie tv: il poliziesco e il medical drama
Un procedimento, quello del ritorno costante delle sitcom “a conduzione famigliare”, che presenta la facilità – pur nella finezza di scrittura – di poter assegnare ai propri personaggi il proprio tempo nel mondo che è, di riflesso, il nostro, costruendo dei protagonisti e il loro vivere la contemporaneità, diverso per ogni decennio in cui vengono inseriti. E così i ventenni, trentenni di Seinfeld e di Sex and the City non potranno essere gli stessi di How I Met Your Mother e, per quanto ameremo ognuno di loro spasmodicamente, sapremo sempre ricondurli a un determinato momento della loro – e della nostra – esistenza.
In un salto indietro che ci riporta ai primordi della serialità e di quell’inizio segnato da I Love Lucy, sono i generi che affiancavano la comedy nei primi anni della tv che vedono un ulteriore evolversi e ripresentarsi nel corso del tempo. Polizieschi e medical drama hanno conferito fin da subito l’alterità rispetto alla risata, l’opposto e l’altro che veniva offerto allo spettatore. Una suddivisione che ha portato i due generi a specializzarsi sempre più nel loro campo, non scomparendo mai nella corrente di riproposte che la tv ne ha fatto, ma sapendosi rimodellare a seconda delle diverse declinazioni che gli autori – arrivati “tardi” nel tubo catodico e maturati in pay tv – e sceneggiatori hanno voluto dargli.
Inizialmente ciò che contava in questo tipo di racconto televisivo era la basicità, con il caso a puntata che si apriva, si svolgeva e veniva risolto nei suoi venti, trenta, al massimo quaranta minuti, ma nel corso dei decenni sono diventate la personalità e la presenza prima dei personaggi, a portare a condizionare le svolte e le scelte di trama della serie, non limitandosi più agli inseguimenti e alle sparatorie nei polizieschi e alle sale chirurgiche e alle diagnosi più o meno mortali dei medical drama.
Se quest’ultimo genere drammatico ha saputo, forse più di altri, declinarsi in uno svariato ventaglio di possibilità di tono, passando per la crescita personale (molto legata, ritorniamo, agli anni Novanta) di ER, all’ironia parodistica di Scrubs fino al melò drama, quello più pregnante negli ospedali della tv, di Grey’s Anatomy, è una linea più sottile quella intrapresa dal poliziesco, che ha aperto un divario tra le sue opportunità di racconto, stabilendosi agli antipodi.
Da una parte, infatti, si ha un filone che sussegue una serie di professioni da detective, investigatore, poliziotto, agente, medico legale che ha deciso di avvalersi della propria forma più commerciale, d’immediatezza, di impatto, aperta a un largo pubblico che si appassioni fin da subito ai casi irrisolti e all’inseguimento di cattivi che vengono più o meno catturati. Dall’altra, invece, una pretesa di autorialità che ha fatto del genere un gioiello della serialità contemporanea, avvolgendo nel mistero del proprio intrigo anche spirituale con True Detective o analizzando le criticità di nuove figure problematiche come i serial killer, studiandoli nel seminterrato di Mindhunter.
L’arrivo della complex tv e l’era HBO
Quella di True Detective e Mindhunter, però, va inserendosi in una realtà testuale che ha un suo preciso inizio storico e una sua radice unitaria. La nascita di quella serialità complessa teorizzata da Jason Mittell e che ha permesso l’evoluzione tanto della scrittura seriale, quanto della formazione di uno spettatore in grado di predisporsi alla visione frammentata e pronta a venir costruita dal pubblico.
Se con Twin Peaks nel 1990 David Lynch e Mark Frost hanno dato inizio ai primi accenni di serialità complessa, è con l’arrivo della HBO che le serie hanno modificato completamente il loro modo di venir concepite e di essere poi messe in atto. L’irruzione di temi come la violenza e il sesso, entrambi inaspettatamente espliciti, hanno intrapreso l’apertura a un nuovo mondo della serialità televisiva, affascinata da ciò che, fino a quel momento, il piccolo schermo non aveva potuto mostrare, fondendo stile e generi ricorrenti che, pur ritornando, apparivano quanto mai inediti.
È con la prigione di The Wire che la HBO stabilisce il primato della sua nascente dinastia seriale, una via disseminata di prelibatezze e premi, che ha fatto scuola per ciò che la tv, online e tradizionale, sarebbe stata da quel momento e che avrebbe condotto le produzioni a puntate su un ben più elevato livello. La libertà creativa della HBO, il suo divincolarsi da ristrettezze che opprimevano le narrazioni classicheggianti della tv generalista, permisero la presentazione di mafiosi affetti da attacchi di panico, assassini che vogliono fare gli attori, vicepresidenti incasinati e troni da dover riconquistare.
Situazioni al limite che soltanto degli investimenti ingenti avrebbero potuto sostenere, nonché la piena fiducia in una serialità ormai pronta ad aprirsi allo spettro di un pubblico temprato da anni di visione domestica, che avrebbe così generato altre linee di racconto percorribili, riproposte con la stessa incisività negli anni.
Un’intensità che un prodotto come Games of Thrones ha rivelato più determinante che mai nelle fila della narrazione episodica, una discesa a valanga delle produzioni che, se nel passato avevano avuto pochi, pochissimi fantasy a cui rifarsi, hanno da adesso il loro faro più luminoso, che forse ha visto la sua vera, prima nascita con la serie ideata da David Benioff e D. B. Weiss, in procinto di duplicarsi con i suoi spin-off e inducendo suoi similari tra il The Witcher di Netflix e il prossimo, attesissimo Il Signore degli Anelli di Amazon Prime.
L’egemonia dello sci-fi e quel suo ritorno uguale e costante
Se il fantasy, dunque, vive un suo momento di estasi nel corso del secondo decennio del 2000, lo sci-fi occupa nell’immaginario di spettatori e fan un posto d’onore che è ben difficile riuscire a racchiudere in un discorso tanto ampio e trasversale.
È certo però che, nel corso della sua lunghissima trafila di viaggi nello spazio e ambientazioni al limite delle realtà siderali, di scoperte di vita extraterrestre e di esplorazione degli universi ignoti, è Ai confini della realtà che ha segnato il fondamentale cristallo da cui sono andati illuminandosi prodotti di pregiatissima raffinatezza fantascientifica, raccogliendo il suo massimo con l’X-Files degli anni Novanta e il Battlestar Gallattica del 2004.
Curiosa è, comunque, la riproposta che il genere ha visto accavallarsi negli anni. Più di altri filoni che avrebbero potuto catturare l’attenzione presente dei produttori seriali, è il saper riprendere il calco originale da un bacino sempre gravido di possibilità universali e inspiegabili che ha alimentato il ritorno dei medesimi prodotti in tempi contemporanei, dalla ripresa stessa della serie X-Files a una riproposta come quella del solenne Doctor Who nel 2005, passando per tutte le rivisitazioni toccate allo Star Trek televisivo – non ultime le produzioni cinematografiche e i suoi affiliati spin-off come Star Trek: Picard – fin proprio alla moderna ripresa di quell’antenato Ai confini della realtà.
Ed anche uno Stranger Things, per quanto appassionante e “inedito”, pur nella sua originalità ha le rimembranze di un deja-vu, un’esperienza di visione coinvolgente e unica nella sua continua riappropriazione e rimessa in scena di un periodo storico, culturale, cinematografico e stilistico ormai andato. Parossismo che vede l’horror duro e crudo dare una sferzata non indifferente nella sua modernità televisiva, genere che sembra aver trovato un modo prolungato per mantenere alta la paura nelle sue puntate e che nella contemporaneità ha trovato la propria vena per esprimersi al meglio.
L’algoritmo contemporaneo di Netflix
Nel volgere così lo sguardo indietro nel mondo dello sci-fi (seriale) già conosciuto, è nell’elaborazione stilizzata dei teen drama che si concentra un nuovo tipo di serialità che sembra aver studiato a fondo i suoi algoritmi e aver tirato fuori la sua, a volte, sterile formula per procedere indisturbata in quello che rischia di diventare un condiviso anonimato. Il binge-watching ossessivo, la nuova modalità di fruizione incontrollata, ha determinato certamente nuovi discorsi attorno alle occasioni di trasformazione delle serie, ma ne ha costretto anche una produzione costante che sceglie spesso di andare sul sicuro, invece di rischiare.
E se su piattaforme come Netflix la serialità nazionale conta – con un catalogo di originali italiani che prendono dalla nostra serialità crime, che mischia in una centrifuga di banalità prodotti ben più attenti quali Romanzo Criminale e Gomorra -, è comunque nella ripetizione sistematica di un genere ad uso mondiale – che può una volta parlare di sesso, una volta di politica, una volta di ambienti abietti e quant’altro – che lo schema si ripete in maniera fine a se stessa, in un vortice di assuefazione catastrofica per le serie e il loro fruitore.
Certo è impossibile pretendere il continuo dischiudersi di scatole cinesi all’interno della serialità ed è pur vero che c’è bisogno di staccare dagli intrighi cervellotici che toccano, in ogni decennio, il loro picco, dal mistero di un cult imprescindibile come Lost a un suo erede tecnologico, dispotico, metafisico nella grande fisicità delle sue macchine come Westworld.
Ma anche lì dove le serie sembrano librarsi con leggerezza sopra i nostri capi, ad oggi dimostrano di avere la forza letale di un martello pneumatico, di nascondere dietro i luccichi (apparenti) di serie LGBT, sempre più essenziali nel panorama spettatoriale, e l’ironia pungente di drammi al confine con la brillantezza della risata, un impegno che la serialità ha dimostrato poche volte così seriamente come nel suo esprimersi contemporaneo.
La scrittura seriale, insomma, è in continua espansione e guarda al mondo in cui vive e ne trascrive la bellezze e brutture in forma racchiusa, cercando ogni volta di donare qualcosa di nuovo, anche alla realtà.