Un percorso cinematografico di cinque film per capire come Hollywood è mutata dopo l’11 settembre
Sono passati vent’anni da quella tragica mattina di fine estate. L’11 settembre del 2001, quattro aerei di linea statunitensi furono dirottati dai terroristi di Al Qaida con l’obiettivo di colpire i centri nevralgici dell’economia e della difesa occidentale. Due di questi aerei furono fatti schiantare contro il World Trade Center, nel cuore di Manhattan; un terzo andò a colpire un’ala del Pentagono in Virginia, mentre un quarto finì in un campo disabitato in Pennsylvania, a seguito di una coraggiosa rivolta dei passeggeri contro gli attentatori.
Questi attacchi sono ritenuti ancora oggi i più gravi attentati terroristici dell’età contemporanea, avendo provocando la morte di circa 3000 persone. Un evento che ha sconvolto il mondo intero e ha aperto un’enorme ferita nel cuore degli americani. Ferita che è ha finito per plasmare non solo la politica e società degli anni ’00, ma anche tutti i prodotti culturali che fruiamo quotidianamente.
Tra questi, il cinema hollywoodiano è stato forse il linguaggio che più di tutti è stato influenzato dagli attentati alle Torri Gemelle. Si parla ormai di un cinema americano post 11 settembre, dove il sentimento popolare, caratterizzato spesso da insicurezza, paura, rabbia e voglia di rivincita, ha cambiato radicalmente lo sguardo cinematografico di Hollywood.
In che modo? Una linea temporale e logica di cinque film può aiutarci a farcelo capire.
Smarrimento, rabbia e senso di colpa: La 25ª ora di Spike Lee
Il primo film ad esser stato fortemente influenzato dall’11 settembre è stato La 25ª ora di Spike Lee, uscito a dicembre del 2002. È stata la prima pellicola a ricevere i permessi per mostrare direttamente il cantiere di Ground Zero, il luogo dove una volta si ergeva il World Trade Center. La storia, tratta dal romanzo di David Benioff, è quella di un uomo, Monty Brogan, che vive le sue ultime ventiquattro ore di libertà a New York prima di dover passare sette anni in carcere per spaccio di droga.
In una delle scene più famose del film, i due amici del protagonista, interpretati da Barry Pepper e Philip Seymour Hoffman, si ritrovano nell’appartamento del primo per parlare del futuro dell’amico prossimo alla carcerazione. L’appartamento si affaccia proprio su Ground Zero, e il lungo e intenso dialogo ha luogo proprio davanti alla grossa finestra che inquadra ciò che rimane delle Torri Gemelle. È una presenza minacciosa sullo sfondo, un promemoria del lutto della città e del vuoto che è stato lasciato. Il personaggio di Pepper è distaccato e cinico nei confronti del cantiere, tanto da viverci proprio al disopra con arrogante indifferenza, mentre il carattere di Hoffman è palesemente più scioccato e sbalordito dalla scena, proprio come lo era probabilmente il pubblico americano dell’epoca messo per la prima volta davanti a quelle immagini funeree.
Ma queste due reazioni – negazione e dolore – non sono le uniche presenti all’interno del film di Spike Lee. C’è anche la rabbia, l’ira del protagonista interpretato da Edward Norton che nel bagno di un bar si confronta allo specchio e manda a quel paese tutti gli strati sociali che compongono New York: dai tassisti pachistani, ai ricconi di Wall Street passando per la propria famiglia e gli amici del cuore. Viene insultato a piena voce anche Osama Bin Laden, e viene pretesa vendetta per le vittime innocenti di quel giorno. Dopo aver augurato all’intera città di bruciare, il monologo gira su sé stesso e torna al punto di partenza: è il protagonista che si insulta da solo e si prende la colpa e la responsabilità delle proprie azioni. «No: in c*lo a te, Montgomery Brogan. Avevi tutto e l’hai buttato via, brutto testa di c*zzo!»
È curioso notare come queste due scene appena descritte, che sono di gran lunga le sequenze più famose del film, non fossero presenti nella stesura originale, ma siano state entrambe incorporate o riadattate da Spike Lee in corso d’opera. Il romanzo di Benioff è uscito prima dell’11 settembre 2001, e quindi non contiene (ovviamente) riferimenti a Bin Laden e Ground Zero. È stato il regista, da newyorchese doc, a ricontestualizzare la sceneggiatura, che non poteva ignorare in alcun modo quello che era successo appena un anno prima. L’11 settembre non influisce sulla narrazione e gli eventi de La 25ª ora, ma ne cambia il contenuto e ne esaspera il significato. Il libro di Benioff rappresentava una società di fine secolo sull’orlo del precipizio che nel film di Spike Lee è definitivamente crollata, lasciando spazio alle macerie composte da un forte senso di colpa e smarrimento.
Il lutto collettivo di una società che soffre: La guerra dei mondi di Steven Spielberg
Molti dei film hollywoodiani che erano in produzione durante il settembre del 2001 dovettero “riadattarsi” agli attentati alle Torri Gemelle. Sia da un punto di vista prettamente visivo (come inquadrature del World Trade Center) che contenutistico: temi come il terrorismo o lo spionaggio internazionale, che potevano rimandare lo spettatore all’11 settembre, furono modificati o eliminati del tutto. Su tutti, il genere del disaster movie, che prevede come punto focale della narrazione la distruzione di città e la morte di migliaia di persone, è stato per parecchi anni messo nel cassetto. La gente non era pronta per rivedere sul grande schermo immagini catastrofiche che si erano ormai infiltrate nella realtà.
È solo quattro anni dopo che il disaster movie torna in auge attraverso una differente prospettiva sul genere. La guerra dei mondi di Steven Spielberg è un film d’invasione aliena tratto dal classico racconto di H.G. Wells, ma ricontestualizzato in un immaginario cinematografico post 11 settembre. Spielberg rifiuta in ogni modo di riprendere in maniera spettacolare o elettrizzante la distruzione, e rappresenta gli eventi in scena come una tortura dal punto di vista emotivo. Il film di Spielberg fa paura perché è ricollegabile e riconducibile a immagini di distruzione che abbiamo già visto ai notiziari, o addirittura (per chi era presente) vissuto dal vivo.
Quanto il protagonista interpretato da Tom Cruise torna a casa dai propri figli dopo aver assistito al primo attacco da parte dei tripodi alieni, è cosparso di cenere da capo a piedi. È la cenere delle persone che sono state annientate intorno a lui, ma è anche la gigantesca nuvola di polvere sollevata dal crollo delle Torri Gemelle, che gli americani non sono ancora in grado di scrollarsi di dosso. È un momento toccante, messo in scena, senza troppe parole: il protagonista allo specchio sa bene cosa gli ricorda quel porcume che ha addosso, così come il pubblico che lo guarda darsi una pulita.
La presenza dell’alieno come minaccia è anche importante: è una metafora diretta del terrorista arabo, che non ha volto, non ha nome e che ha come unico obiettivo la distruzione del mondo. Metafora sottolineata anche dai commenti della figlia del protagonista, che gli chiede incessantemente se ad attaccargli sono nuovamente i terroristi. L’associazione alieno e terrorista tornerà più volte nei media mainstream, poiché perfetto rappresentante dell’attentatore talmente estraneo dai modi e la cultura occidentale da risultare proveniente da un altro mondo. Aspetto, quest’ultimo, che più volte sfocerà in una mitigata islamofobia.
Ma ne La guerra dei mondi di Spielberg risiede anche un’altra faccia della rappresentazione del sentimento popolare: la voglia di rivincita, ovvero quella furia cieca collettiva che ha portato una buona fetta del popolo americano ad accettare una guerra in Afghanistan e in Iraq. Questo sentimento è incarnato dal figlio maggiore del protagonista, che durante il corso della narrazione finirà per arruolarsi nell’esercito per contribuire alla lotta contro gli invasori.
Il film di Spielberg è quindi il perfetto esempio di come il blockbuster hollywoodiano sia cambiato dopo l’11 settembre. La sofferenza non è più spettacolizzata ma resa cruda, reale, e il sentimento popolare di insicurezza davanti ad eventi catastrofici – così come la voglia di ribattere all’offensiva – vengono rappresentati per la prima volta sul grande schermo.
Immergersi nella tragedia: Cloverfield di Matt Reeves
I prossimi tre film che ci aiutano a capire come il cinema americano sia cambiato dopo l’11 settembre sono tutti usciti nel 2008, anno in cui sia i blockbuster che i film da Oscar hanno iniziato ad imbracciare pienamente quello che è successo sette anni prima.
Iniziamo con Cloverfield di Matt Reeves, che si ricollega direttamente a La guerra dei mondi di Spielberg. Anche in questo caso ci troviamo davanti a una invasione aliena dalla forza distruttiva. Già dalla campagna marketing del film possiamo notare come l’opera di Reeves richiami agli attentati dell’11 settembre: la locandina ci mette davanti a una statua della libertà decapitata che si affaccia su una New York in fiamme, mettendo così sin da subito in chiaro la direzione dell’intera produzione. Ma il modo in cui Cloverfield si distingue dal film di Spielberg è la tecnica utilizzata per la sua realizzazione: il found footage. Quest’ultimo stile registico è diventato un vero e proprio sottogenere cinematografico dell’horror, che è stato però negli ultimi anni usato anche per commedie o film di fantascienza. Si tratta di film girati con telecamere a mano che, all’interno del contesto narrativo della storia, sono stati ritrovati da qualche superstite che l’ha poi rimontato e messo a disposizione del pubblico. Sono pellicole che fanno del realismo il loro punto di forza maggiore, visto che sono quasi sempre girati in una soggettiva che va anche a ricordare il reportage documentaristico.
Sfruttando il found footage quindi, Cloverfield racconta la storia di una festa dove uno degli invitati inizia a girare un filmino da tenere come ricordo. Durante la serata però scoppia un terremoto e la gente scappa in strada, solo per scoprire che New York si trova sotto l’attacco di una gigantesca creatura aliena. Il protagonista decide quindi di riprendere tutto quello che succede durante la fuga della città con lo scopo di lasciare una testimonianza degli eventi.
Se Spielberg attraverso la cenere addosso a Tom Cruise compiva un rimando più o meno diretto al crollo delle Torri Gemelle, la prima scena di distruzione di Cloverfield attua una vera e propria ricostruzione delle tragiche immagini di quel giorno. Attraverso la tecnica della telecamera portatile, il film di Reeves si ricollega alle centinaia di testimonianza amatoriali riprese dai passanti l’11 settembre. Cloverfield sfrutta il ricordo della tragedia per fare un cinema dell’orrore di un nuovo tipo. Un cinema horror che immerge lo spettatore in un viaggio infernale nel viale dei ricordi.
Caos e terrorismo: Il cavaliere oscuro di Christopher Nolan
Ma l’11 settembre ha influenzato anche il cinema supereroistico, che trova il suo apice a fine degli anni ’00 con il film Il cavaliere oscuro di Christopher Nolan. Il sottotesto del cinecomic affronta tantissime tematiche attuali per l’epoca, che variano dal terrorismo al controllo governativo, fino ad una velata critica alla giurisdizione americana che sembra non avere confini.
Prima di tutto il Joker, figura che nelle sue precedenti trasposizioni cinematografiche era sempre stato messo in scena con una parvenza di umanità: il principe del crimine aveva un nome, un luogo di nascita e una backstory tragica. Nel film di Nolan invece, il Joker non esiste. È una figura misteriosa, irrintracciabile, che sembra esser uscita fuori dal nulla con il solo obiettivo di «vedere il mondo bruciare». Il Joker di Ledger paralizza Gotham dal terrore piazzando bombe e facendo minacce, e agisce con la consapevolezza di essere un vero e proprio agente del caos. Non è difficile, dopo questa descrizione del personaggio, trovare nella sua figura un ricollegamento a Bin Laden e ai terroristi di Al Qaeda.
Nella figura autoritaria di Batman troviamo invece diversi rimandi al nuovo tipo di politica statunitense che si era andato a sedimentare in quegli anni. Come per esempio il Patriot Act, ovvero una norma federale che, citando direttamente Wikipedia, “rinforza il potere dei corpi di polizia e di spionaggio statunitensi, quali CIA, FBI e NSA, con lo scopo di ridurre il rischio di attacchi terroristici negli Stati Uniti, intaccando di conseguenza la privacy dei cittadini”. Vediamo questi concetti applicati al cavaliere oscuro di Nolan che non conosce giurisdizione, e si prende la libertà di andare fino a Hong Kong per rapire il contabile della mafia di Gotham, Lau Chen, fuggito in patria per evitare l’arresto in America. O ancora, per poter individuare il Joker, Batman nel finale del film utilizza una tecnologia che sfrutta i dispositivi elettronici dei cittadini per creare una mappa sonar della città. Una violazione della privacy di massa per un “bene più grande” che viene accolta con grande disappunto anche da Lucius Fox, assistente fidato di Bruce Wayne nella realizzazione delle sue nuove tecnologie.
Si tratta di due aspetti – la violazione della privacy e della giurisdizione – che il giustiziere mascherato approccia a pieno in questa nuova trasposizione di un Batman post 11 settembre. Un Batman (rappresentante del governo americano) che pur di catturare il Joker (metafora di Bin Laden) ricorre a misure non propriamente costituzionali (come il Patriot Act).
Aspettando lo spettacolo: The Hurt Locker di Kathryn Bigelow
E infine è impossibile non tracciare la fine di questo percorso cinematografico post 11 settembre con The Hurt Locker di Kathryn Bigelow, opera di guerra vincitore dell’Oscar al miglior film nel 2010. Si tratta di uno dei primi film di successo a raffigurare la seconda guerra del golfo, e vede come protagonisti Jeremy Renner, Anthony Mackie e Brian Geraghty.
La storia è quella di un gruppo di artificieri, e dei loro ultimi giorni di mandato in Iraq. Durante il film sono tante le sequenze in cui vediamo il protagonista nell’intento di disinnescare un ordigno esplosivo. Tra i personaggi e i civili attorno a loro, monta costantemente una tensione crescente che però sfocia (quasi) sempre in nulla di fatto. Si tratta di un gioco d’osservazione, dove mentre il protagonista è all’opera con la bomba di turno, gli altri due personaggi tengono a bada i curiosi. Gente che osserva dai balconi, dagli angoli della strada. Sono loro che hanno piazzato l’esplosivo? Sono loro quelli che possono far saltare tutto da un momento all’altro?
Tra i militari e i civili non viene mai aperto il fuoco: tutto è giocato attraverso gli sguardi e la pazienza. La gente, come lo spettatore, attende e spera che accada una tragedia. Aspetta di vedere se effettivamente quell’ordigno esploderà e farà fuori tutti quanti. Per gli iracheni sarebbe un risultato che vale a dire rivincita, resistenza nei confronti dell’invasione statunitense. Se il disaster movie subito dopo l’11 settembre era stato messo da parte per una funzione di rimozione totale del trauma dall’immaginario collettivo, in The Hurt Locker assistiamo a un vero e proprio auspicio del disastro. Assistiamo al film come assistono al disinnesco i loschi individui accostati sui balconi, che hanno bisogno e sperano di vedere un’altra immagine di distruzione.
Il film di Kathryn Bigelow si preoccupa inoltre di fare un’attenta disanima della psicologia del militare in Medio Oriente. Il protagonista interpretato da Jeremy Renner è un drogato di adrenalina, e ha bisogno di quella vita sul filo del rasoio per poter continuare a vivere. Per il reduce di guerra, a volte la vita in Iraq rimane l’unica esistenza concepibile, una volta finito il mandato. Ed ecco che il protagonista rifugge la propria famiglia, la propria vita ordinaria di città. Ha bisogno del deserto, dell’uniforme e del pericolo di morire ogni giorno. Quasi ad espiare un senso di colpa recondito, nascosto nel profondo.
La regista Kathryn Bigelow continuerà il suo discorso sull’America post 11 settembre con il suo successivo film, il capolavoro Zero Dark Thirty, che ruota intorno all’uccisione di Osama Bin Laden, avvenuta il 2 maggio 2011 in Parkistan. Con questo film, uscito dieci anni dopo gli attentati alle Torri Gemelle, Bigelow chiude un percorso cinematografico che ha visto parecchie facce e parecchi volti dell’industria.
Abbiamo visto una dichiarazione di amore e odio della città con La 25ª ora di Spike Lee; la nuova prospettiva sul disaster movie con La guerra dei mondi di Steven Spielberg; l’approccio avanguardistico alla tragedia di Cloverfield di Matt Reeves; un nuovo mantello per Il cavaliere oscuro di Nolan; e infine un macabro gioco di sguardi in The Hurt Locker e la regolazione dei conti in Zero Dark Thirty.
Nel corso degli ultimi vent’anni, il cinema americano è stato in grado di dire ancora moltissimo in tanti modi diversi. C’è il documentario inchiesta di Michael Moore, Fahrenheit 9/11; i film che ricostruiscono gli eventi di quel giorno come World Trade Center di Oliver Stone o United 93 di Paul Greengrass. O ancora rimandi più o meno espliciti a quell’immaginario in Man of Steel e Batman v Superman di Zack Snyder.
Si tratta di un evento che ha cambiato completamente il mondo e ha influenzato irreversibilmente la cultura pop di cui noi tutti fruiamo. Sarà interessante notare, magari tra vent’anni, come invece la pandemia da Covid-19 sta influenzando il cinema del presente. Ma questa sarà una riflessione per il futuro.