Da L’uomo in più alla seconda stagione The New Pope: la strada e la poetica di Paolo Sorrentino
Eccellenze italiane. Ci sono, sono reali. A volte rischiamo di perderle nella melma che, per anni, un’industria troppo stanca e troppo anziana ha manovrato, ma che in mezzo a quell’impasto e rimpasto, ha lasciato emergere piccole pietre d’oro che hanno innalzato il nostro prodotto audiovisivo rendendolo qualitativamente interessante per noi e il resto del mondo. E, a pensarci senza indugi, sono sempre quelli i nomi dei nostri prodigi tutti italici, che dall’Europa all’America hanno riproposto la loro idea di arte visiva e ci hanno permesso di poterci risollevare nonostante la continua sfiducia per il materiale nostrano. In alto, insieme a pochi altri, è il nome di Paolo Sorrentino a primeggiare.
Il napoletano da Oscar, l’uomo che ci ha portato dalla Penisola fino al luccichio hollywoodiano, in una carriera in perfetta simmetria nel suo posizionarsi in salita e continuamente in grado di reinventarsi, pur rimanendo sempre la stessa.
Dagli uomini semplici alle icone
Perché è notevole il passo fatto dal regista e sceneggiatore partenopeo dal 2001 al 2020. Una linea in continua evoluzione, che già presentava ne L’uomo in più i dettami di una visione d’assemblaggio compositivo che ha poi continuato a tratteggiare la strada del cineasta, gradualmente arricchita fino alla sua esplosione naturale, pur nella sua mise en scène ogni volta talmente artefatta.
Dall’uomo alle icone, dalla semplicità allo sfarzo, Paolo Sorrentino ha percorso un tragitto in cui alle storie è andata aggiungendosi, di volta in volta, la costruzione sempre più elaborata, l’idea sempre più folle, indisponente, che facesse straboccare quelle narrazioni, rendendole corpo sempre più unico e riconducibile al suo realizzatore.
Nell’esplorazione dei suoi uomini particolari, delle identità singole che Sorrentino ha indagato, mai uguali alle altre, né tra loro stesse tantomeno rispetto al circondario in cui sono e siamo immersi, nel 2008 è l’establishment che il regista va ad intaccare, appropriandosi della figura di Giulio Andreotti e rendendola parte della sua fantasia, quanto mai audace e prorompente.
Con Il divo comincia tutta una nuova trafila di individui straordinari nella loro bassezza, complessità, incapacità, difficoltà di adattamento con gli altri, per gli altri, partendo dal senatore a vita e rimaneggiandolo a proprio piacimento, senza mai provare il gusto del reale.
Tutti i “Loro” di Paolo Sorrentino
Un balzo che lo porterà, nel 2018, a un ulteriore confronto con il simulacro, con la riproposta personale e drammatizzata di un’identità incastonata nella storicità della politica italiana, che Paolo Sorrentino preferisce trasmigrare nella sua intimità mai veramente colpevole, ma mostrandola sotto il punto di vista privato e ironico.
Non patteggiante, eppure più riversato alla finzione del personaggio che alla veritiera sistematicità dei fatti. Con Loro, il cineasta trucca Toni Servillo e divide la propria pellicola in due parti, presentando la psichedelica idea (non) politica di Silvio Berlusconi nella prima e rivelandolo indifeso e umanamente teatrale nella seconda.
Un connubio di assurdità, inquietudini, luci ed eccessi che la filmografia del regista continua a sperimentare, che aveva già adottato e che catalizza per descrivere, in due film che sono poi uno solo, la maschera italica.
Da Napoli ad Hollywood, fino al dibattito popolare
È tornando però indietro di qualche anno che si arriva alla vera controversia cinematografica di Paolo Sorrentino, alla sua opera che non è più terreno per pochi, intellettuali, amanti del cinema e sostenitori della poetica del regista. È il 2013 e Sorrentino dirige La grande bellezza, pellicola grondante di bizzarria, di eccentricità, di temi e discussioni che sembrano aleatori, ma che sono fatti per essere ascoltati, per essere presi in giro, analizzati e ripetuti all’infinito.
È il momento dell’Oscar al Miglior film straniero per il cineasta, che ringraziando le sue fonti di ispirazioni Federico Fellini, Talking Heads, Martin Scorsese e Diego Armando Maradona, conquista la statuetta e l’attenzione del grande pubblico, che lo sostiene in prima serata su Canale 5 e gli dona, alla sua programmazione in chiaro nel marzo del 2014, uno share del 36%.
Tutto questo rendendo La grande bellezza il film italiano più visto degli ultimi dieci anni televisivi, nonché argomento di conversazione popolare, aperto a chiunque, per un cinema che ha ricominciato a far parlare di sé e che continua, da allora, il dibattito sul merito o meno della pellicola.
Nel suo omaggio a La dolce vita del Fellini a cui da sempre è grato, La grande bellezza rende osservatore Jep Gambardella, uomo tra gli uomini, cinico tra gli incompetenti, gli stralunati, i falsi, gli aspiranti portatori di quella bellezza del titolo che è poi Roma con le sue contraddizioni, con i suoi personaggi inusitati, stravaganti, la cui magia è possibile anche nelle fragilità più sciocche e meno ostentate.
Un film che è un occhio sulla Capitale e su chi la abita nei salotti per bene, nelle feste sconsiderate. È un film da Oscar, che lo si accetti o meno, che ha aperto un dialogo diretto tra cinema d’autore e pubblico, rendendolo ancora più prezioso per questo suo inaspettato fine.
The Young Pope, The New Pope e l’anima televisiva di Paolo Sorrentino
E, dal grande schermo alla tv, il passo è breve. Nel 2014 sono le porte del Vaticano che Paolo Sorrentino apre e in cui immerge i personaggi della sua serialità. Lenny Belardo, giovane, intransigente, bellissimo Papa del protagonista Jude Law, spacca la propria spiritualità tra santità e divismo, religione e spettacolarità.
In una summa, sembrerebbe, delle linee stilistiche dell’autore, che da sempre hanno ricercato il proprio esistere nelle antinomie che nascono dall’incontro del sacro e del profano, del visivo e del sonoro.
Le incongruenze che alimentano i lavori di Sorrentino e che The Young Pope esplica all’esasperazione lungo il proseguimento delle sue puntate, molto legate a una patina televisiva che sembra perdersi nella seconda stagione The New Pope, e che continua invece con un’istigazione che non è mai, però, veramente finalizzata allo scandalo.
Nei colori e nelle musiche, nelle combinazioni che dovrebbero stridere tra loro, ma rinforzano in realtà l’anima progettuale del regista campano, il cinema di Paolo Sorrentino è estetica e estasi insieme, la banalità riempita di significato, che rende tutto accessorio del racconto.
Un’armonia che intercorre tra nefandezze e eleganza spicciola, ma che riempiono gli occhi dello spettatore davanti all’abilità di mescolare il tutto rendendolo meraviglia. Un vero talento italiano, reale pur nel suo universo incantato.