Analizziamo la figura di Circe, conosciuta come perfida maga ingannatrice. Ma è soltanto questo?
arlando di antichità greca e romana, di miti ed epica, immediatamente sono i corpi possenti degli eroi, le gesta scabrose e terribili degli dèi a venirci in mente, a farci tornare con una memoria recondita a un immaginario di violenza, meraviglia e mascolinità. Eppure ad inserirsi nella grande Storia antica non sono solo uomini: dalla tela di Penelope al filo di Arianna, dalle profezie di Cassandra alla magia di Circe, donne potenti, rivoluzionarie nel loro essere intrinsecamente fossilizzate, oggi ci parlano e ci raccontano a gran voce le loro storie di ribellione, amore, odio, inganno, tradimento, sopravvivenza.
Sopravvivenza. La parola cardine del personaggio che anima queste righe. Un dio conosce il significato della sopravvivenza? Del restare a galla, del tentare in ogni modo di non annegare? Un dio immortale conosce la vita? Conosce la morte? Forse no. A meno che non si chiami Circe. Conosciuta da tutto il mondo come la perfida maga ingannatrice che tramutò i marinai di Ulisse in porci, la Maga Circe è ancora oggi una delle figure più enigmatiche e seducenti dell’intera classicità: dea o maga? Donna o mostro? Illusione o realtà? Grazie al meraviglioso libro di Madeline Miller che porta il suo nome, possiamo ricostruire il filo di questa creatura ibrida, calata nel suo tempo e immortale nella mente del Mondo. Una donna che ha sfidato gli dèi, che ha combattuto per vivere, che ha scardinato ogni tassello che compone la canonica concezione di divino.
La biografia di Circe che Miller ci propone, in una veste romanzesca emotivamente potente, inizia con la sua nascita: figlia del dio del Sole Elio e della ninfa Perseide, Circe nasce come prima di tre fratelli. È una dea nelle cui vene scorre il sangue dorato di un titano. Eppure è diversa: c’è qualcosa in lei che la rende invisibile, insignificante agli occhi di tutte le altre divinità, le quali popolano i salotti preziosi riempendoli delle loro risate sguaiate e delle loro cattiverie. Circe non assomiglia a nessun altro dio; in quella ragazza dai lunghi capelli ricci c’è qualcosa di strano, di spaventoso e pietoso. Assomiglia troppo ad un essere umano. La sua figura non è imponente come quella di suo padre; la bellezza non è folgorante come quella di sua madre; la voce non melodiosa come quella delle altre ninfe. Circe è diversa e si sente diversa in un mare di dèi che invece, ai suoi occhi, sembrano creature deviate, scomposte, incomprensibili. Lei non è una di loro e questo non la rende neanche una di noi. Allora chi è Circe?
Nel grande racconto dell’Odissea, Circe è dipinta come una maga, una donna capace di lanciare incantesimi. Inganno, seduzione, transmutazione, morte sono i poteri che le vengono affidati dalla mano di un ipotetico uomo lontano nel tempo; eppure la storia che ci propone Miller nel 2019 è assai più complessa, più intima, forse anche più veritiera.
Gli dèi greci sono invenzioni, ma immaginare Circe solcare la terra del Circeo non è così difficile: la leggenda in lei si plasma e prende le sembianze più umane che siano mai state affidate a una creatura mitologica tanto remota. Nata in un luogo inospitale, tra persone della sua stessa specie che la odiano, la denigrano, la fanno sentire piccola; cresciuta con accanto un padre inquisitorio e narciso, una madre crudele ed egocentrica; catapultata in un luogo nuovo, inesplorato, lasciata sola con addosso la più grande verità della sua vita, che finalmente spiega perché si sentisse così diversa.
Tutti questi elementi fanno davvero pensare ad una storia tanto lontana dalla realtà (nella maggior parte dei casi femminile) di ogni tempo? È tanto difficile immedesimarci con la maga più famosa del mondo? Le pesanti movenze della scrittura patriarcale hanno tramandato a noi contemporanei la silhouette di un bellissimo mostro, opaca e mai del tutto esplorata. Oggi, con le dovute accortezze storiche, è invece possibile leggere la leggenda con strumenti più approfonditi, guidati da una mano che varca il confine dell’immobilità epica ed estrae un contenuto emotivo, psicologico e sociale che lascia i brividi sulla pelle.
Circe ci offre su un piatto d’argento l’esempio più completo di quella che è la storia di una donna a caccia di libertà: una libertà che, nel suo caso, è raggiungibile solo tramite la solitudine. Circe non può essere felice senza conoscere a fondo se stessa: da bambina è stata calata in un mondo onirico (più simile ad un incubo) in cui nulla di ciò che era veramente poteva essere espresso. La repressione del proprio io l’ha condotta alla negazione della sua vera natura, al rifiuto della felicità, alla sottomissione più ingenuamente pilotata. Simile status di ingabbiamento è fedelmente riconosciuto da ogni epoca, non abbandona mai gli esseri umani, neanche nel XXI secolo, in cui la parola “diverso” dovrebbe essere letta esclusivamente in una chiave completa e intrinsecamente positiva. Invece la diversità è ancora un gabbia, che rinchiude le più ampie ed inspiegabili fasce della popolazione: essere donne all’epoca di Omero voleva dire portare manette magiche e strabilianti, ma nell’epoca del Me too non è cambiato molto. La storia si è semplicemente disfatta del lenzuolo dell’indifferenza favolistica ed è diventata (nel male, un bene) cruda realtà che può essere denunciata. A far destare Circe da questo torpore mentale è il contatto con un mondo a cui sente di appartenere: quello della Natura.
La scoperta di sé passa per Circe attraverso la scoperta di tutto ciò che esclude il divino. Gli dèi sono gli esseri meno naturali che si possano immaginare; la Natura nelle loro mani è un pezzo di argilla da plasmare, schiacciare, imitare. La loro carne non cede, il loro cuore non batte come battono i ritmi incessanti del cosmo, la loro vita scorre come una non-vita, priva del significato più intrinseco all’Uomo: la caducità mortale.
Circe in questa lenta decadenza ci si rivede come in uno specchio. È la coscienza della morte, la sua vicinanza (che lei comunque non può raggiungere) che le trasmette l’incontrollabile impeto di provare sentimenti, parola estranea a chiunque altro dotato di immortalità. Circe non riesce a non provare emozioni, a non innamorarsi, odiare, provare compassione e sensi di colpa: questo la rende un mostro agli occhi di una società in cui la passione femminile è malvagità e l’impassibilità degli dèi è forza virtuosa da temere. La rende perfida. Perché se gli dèi vedono gli esseri umani morire e soffrire per mano loro è volere del Cielo, è questione che l’umanità non può comprendere, ma solo adorare come feticcio; se Circe lotta per salvarsi da quel baratro di nera stasi, se ama e abbandona, se inganna e odia allora tutto si riduce alla solita, ripetitiva, piatta descrizione di “cattiva”.
Nell’Odissea la figura della maga del Circeo, confinata sulla selvaggia isola di Eea, circondata da bestie, è bidimensionale perché tutta costruita in funzione dell’esaltazione dell’intelligenza di Ulisse. Il potere dell’eroe sconfigge l’inganno della donna, l’astuzia la seduce e l’abbandona. Questo il destino delle donne nella stragrande maggioranza della mitologia antica: amore e abbandono sono le costanti facce di una medaglia che non cambia mai direzione.
Come scrive Cristina Franco nel suo saggio Circe. Variazioni sul mito, “ è alle scrittrici di età moderna e contemporanea che spetta il compito di riscattare Circe dalle calunnie propagate per millenni”. Nel suo scritto, Franco ripercorre la storia della maga partendo da Omero, analizzando le alternative della sua storia proposte da Ovidio, Plutarco e Machiavelli fino a giungere ai romanzi di Atwood e Webstern. Allo stesso modo Madeline Miller ricostruisce una vita di donna che è continua interazione tra interiorità personale e rapporti esterni: attraverso le sue avventure conoscitive, Circe scopre se stessa e fa tesoro della sua più pura essenza, incomprensibile a chiunque se non a lei. Circe, dalla sua piccola isola salvifica in cui è confinata, vede il mondo attraverso occhi innovativi, che assumono un’angolazione che nessun altro dio può replicare. Il suo rapporto con gli uomini (Glauco, Ermes, Dedalo, Ulisse) è sempre sostenuto da una graduale coscienza interiore, che la porta a gestire uomini potenti che sono quasi sempre pronti a pestarle i piedi, a ricordarle il suo posto. Ma il suo posto è l’isola di Eea, selvaggia e indomabile, pericolosa e desolata a meno che non sia selvaggia e indomabile anche la donna che la popola.
È questione fondamentale quella di restituire ai personaggi femminili dell’antichità una dignità e una dimensione a trecentosessanta gradi: figure come Morgana e Ginevra per la mitologia arturiana, come Circe e Cassandra per quella greca, come Giulietta e le streghe del Macbeth per quella shakespeariana ne hanno incondizionatamente bisogno, oggi più che mai. Alle penne moderne, mosse da un interesse nella rivitalizzazione di donne dimenticate sotto stivali maschili, è lasciato l’arduo compito di ricostruire vite che sono più di semplici leggende: sono specchio di una società, di un modo di vivere contorto e distorto, che ancora oggi lascia ben visibili i suoi retaggi. Forse attraverso le parole di Circe, finalmente a lei restituire da una bocca femminile, oggi riusciamo a scardinarci da meccanismi che resistono a cadere in disuso. Forse dietro il velo del canto illusorio della maga possiamo ancora scorgere una melodia autentica, che risuona come un inno di rivalsa e resistenza, non come un profumo seducente pronto a svanire alla prima folata di vento.