La Città di Ottone: a volte l’ambientazione non basta
Se da amanti del fantasy non conoscete la Città di Ottone e la Trilogia di Daevabad non preoccupatevi. Il libro, pur essendo uno dei prodotti di genere fantastico più apprezzati negli ultimi anni, è arrivato in Italia da appena un paio di settimane.
Complice (forse) il fatto che Netflix abbia annunciato un adattamento, il libro di S. A. Chakraborty è giunto finalmente in Italia, dopo aver conquistato consensi in patria. Tra le varie approvazioni ricevute dalla critica, oltre a un gran numero di presenze come finalista nei concorsi letterari, il romanzo ambientato nel Medio Oriente ha ricevuto riscontri da diversi esperti del settore.
E i motivi sembrano abbastanza chiari. Ci troviamo di fronte a un romanzo capace di uscire con originalità dal solco della letteratura tolkieniana, pur senza far mai mancare il sense of wonder e dando al lettore una bella sensazione di novità nella lettura.
Leggere la Città di Ottone spinge chiunque a divorare il libro. Lo stile scorrevole, il mondo costruito con cui ed evidente passione da parte dell’autrice, contribuiscono a farne una lettura piacevole. Questo al di là di alcuni difetti presenti nel libro. Primo tra tutti il fatto che, di riffa o di raffa, negli ultimi anni sembra che tra gli autori fantasy si sia deciso di fornire una propria versione del gioco del trono. Oltre a qualche scelta di trama leggermente scontata, che potrebbe far sorridere alcuni lettori più smaliziati. Ma cerchiamo di fare le cose per bene. Riprendiamo le fila dal discorso e analizziamo l’opera per capirne al meglio pregi e difetti, collocandola nel panorama del fantastico contemporaneo.
Per ottenere questo ottimo risultato il primo passo è quello più difficile e allo stesso tempo più semplice da fare: pensare fuori dal solco tracciato da Tolkien. Scegliere “nuove mitologie” da utilizzare per il fantasy.
Attento a ciò che desideri
La storia comincia alla fine del secolo XVIII, al Cairo. Qui facciamo subito la conoscenza di Nahri, una piccola truffatrice che campa alla giornata vendendo cure miracolose ai ricchi abitanti della città. Nonostante la maggior parte dei suoi rimedi siano pura ciarlataneria, la ragazza ha davvero la capacità di avvertire il “male” nelle persone e curarle, oltre a un’innata propensione per le lingue e i dialetti, compreso un misterioso idioma che nessun dotto del Cairo parla e che la giovane, orfana e cresciuta senza genitori, reputa sia la sua madrelingua. Una sera, durante l’ennesima truffa ai danni di una famiglia benestante, la ragazza inscena un esorcismo per liberare una bambina dalla possessione di un Djinn.
Il problema è che qualcosa va oltre le sue stesse intenzioni. La giovane si trova a evocare realmente un Djinn (o Daeva), attirando allo stesso tempo le mire di un ifrit, uno spirito maligno che desidera ucciderla. Il motivo è presto spiegato: Nahri è una shafit, mezzosangue discendente di una nobile famiglia di djinn, i Nahid. Per tale motivo il guerriero daeva Dara si prenderà cura di lei, scortandola verso Daevabad, città leggendaria dove i djinn hanno trovato rifugio e dove la ragazza potrà essere al sicuro e mettere a frutto le sue doti di guaritrice.
Allo stesso tempo nella città di Daevabad facciamo la conoscenza del principe Ali, il quale si trova coinvolto nella ribellione del Tanzeem, un gruppo che cerca di fare gli interessi degli shafit nella città e lottare per i loro diritti nonostante la politica restrittiva del sovrano. I capitoli di Ali mostrano quanto sia complessa la situazione della capitale Daeva. Un mondo spaccato tra i purosangue e shafit, etnie e fedi differenti. Una miscela complessa, pronta a esplodere, complicata ulteriormente dalla numerose rivalità tra le varie tribù Daeva e dalle loro diversità religiose.
Sin dai primi capitoli appare evidente come Chakraborty abbia compiuto un impressionante lavoro di mitopoiesi. E proprio nell’accurata costruzione del mondo si ha il grande punto di forza del romanzo di Chakraborty. Nel leggere la Città di Ottone si è ansiosi di conoscere tutti i retroscena dell’ambientazione del romanzo. Gli usi e i costumi dei djinn, la loro storia, le loro capacità. Ma anche le rivalità, i tradimenti e i complotti che si celano nella realtà magica di questo mondo.
Oltre a questo non manca l’interesse per la vicenda personale della protagonista. Nahri ha sempre vissuto al Cairo, completamente estranea allo splendore di Daevabad e ignara della sua storia personale. Come è arrivata in Egitto? E cosa vogliono gli ifrit da lei? Quanto basta per tenere alta l’attenzione del lettore, cosa aiutata anche da un paio di plot twist.
Anche se non tutto è esattamente imprevedibile. La grande discriminante nella lettura del romanzo di Chakraborty si trova proprio in alcune scelte di trama. Alcuni lettori più disincantati non avranno problemi a rubricarle come banali.
L’autrice, pur abile nella descrizione del mondo, pecca nel mostrare ai lettori dinamiche già viste. L’ultima discendente di una tribù/famiglia nobile che si riteneva scomparsa. Perché questa cosa non sembra nuova? Ci sono anche casi in cui l’entrata in scena di un personaggio sembra subito dichiarare il suo destino. Dal soggetto destinato a una morte rapida, sacrificato sull’altare del Deus ex Machina al personaggio catalogabile sin da subito come (perdonateci questa commistione di termini) tsundere. Insomma, non tutto è oro quello che brilla nella Città di Ottone e alcuni elementi sono fin troppo comuni per un fantasy. E questo non aiuta la lettura.
Quel che resta di Tolkien
Arrivati a questo punto proviamo ad analizzare un po’ la mitologia dietro al lavoro di Chakraborty. Se è vero che la mitopoiesi è un lavoro “tolkieniano“, dobbiamo dire che quanto realizzato da Chakraborty è forse la più tolkieniana delle opere. E questo senza utilizzare un singolo elemento della mitologia norrena o del ciclo bretone. Insomma, se cercate un fantasy che non coinvolga il dannati elfi, potreste avere piacere nel leggere la Città di Ottone. E il Professore di Oxford avrebbe probabilmente provato grande piacere nella lettura di questo romanzo.
L’autrice riprende numerose tradizioni delle mitologie persiane, indo-iraniche e arabe, miscelandole attraverso la tradizione islamica per creare un mondo fantasy del tutto nuovo nel suo genere. Il titolo stesso è un riferemento alla leggendaria città perduta di Iram delle Colonne (o Ubar, che sicuramente i giocatori di Uncharted ricorderanno), l’Atlantide del deserto divenuta l’ossessione di Lawrence d’Arabia.
Nel creare il proprio mondo l’autrice preleva vari passi del Corano, quelli in cui sono contenuti riferimenti alle creature venerate prima della predicazione del Profeta, rimodellandole per dare loro diverse caratteristiche. La suddivisione dei popoli e delle creature presenti nel mondo che fa da sfondo al romanzo di Chakraborty è curiosa e complessa. La prima naturale divisione avviene in base agli “elementi” di cui sono costituiti gli esseri viventi. Oltre agli umani, legati alla terra, esistono i Marid, potenti entità acquatiche, i Peri, misteriose figure alate legate all’aria, e infine di djinn, legati al fuoco.
Questi ultimi, a loro volta, sono suddivisi in diverse tribù, ognuna delle quale contiene riferimenti a culti zoroastriani e indo-iranici. Il nome stesso con cui alcuni rappresentanti di questo popolo chiamano se stessi, Daeva, richiama richiama l’Avestā, il libro sacro dello Zoroastrismo. L’impronta più grande resta tuttavia quella dei riferimenti ai culti pre-islamici presenti nel Corano.
Un esempio è quello della figura del profeta Solimano, meglio conosciuto da noi occidentali come re Salomone. A lui il Creatore avrebbe concesso il potere di sottomettere i Daeva, riducendo i loro poteri e incarnandoli per renderli meno pericolosi per gli umani. Solimano avrebbe anche preso un’altra precauzione per controllare i Daeva: lo avrebbe divisi in diverse tribù. Da questa spaccatura sarebbero derivate ostilità di matrice politica e religiosa, parte del disegno del profeta biblico per controllare i djinn.
Questo forse è uno degli elementi di maggiore interesse nella “lore” del libro. Sia nella Bibbia che nel Corano, Salomone viene indicato come un grande esorcista, un mago capace di piegare a sé la volontà dei demoni e dei djinn per compiere azioni eccezionali. La costruzione del Tempio di Gerusalemme, per esempio, sarebbe avvenuta grazie alle doti di mago del sovrano. Chakraborty riprende quindi un tratto decisamente noto della tradizione ebraica e islamica, facendo di una delle figure chiave di queste religioni una delle colonne della sua ambientazione.
Insomma, il tratto fantasy presente ne La Città di Ottone è davvero ben studiato. Si tratta di un mondo che, come detto, porta il lettore a leggere avidamente le pagine per apprendere il più possibile. Una sensazione di sconosciuto e novità che accompagna per tutta la lettura. Quel “sense of wonder” che ogni fantasy dovrebbe avere e che porta i lettori a ricordare le prime esperienze su questo genere così bistrattato.