Avere tanta voglia di andarsene
Il 22 febbraio 2017 la NASA ha svelato la sua scoperta: ben sette esopianeti orbitanti intorno alla stella TRAPPIST-1, con caratteristiche simili alla Terra. Andando con ordine, TRAPPIST-1 è una stella che potremmo definire ‘fredda’ (ultra-cool dwarf, Nana ultra-fredda), nel senso che la temperatura sulla sua superficie è inferiore rispetto a quella del nostro sole e questa premessa è cruciale sotto molti aspetti. Innanzitutto questo favorirebbe la presenza di acqua in forma liquida nei pianeti che gli orbitano intorno, e non in forma gassosa, ad esempio. In base agli studi della densità dei sette corpi celesti orbitanti intorno a TRAPPIST-1, gli scienziati alla NASA, coadiuvati da squadre esterne sul resto del nostro pianeta, in uno sforzo congiunto eccezionale, sono arrivati alla conclusione che le Seven Wonders sono sette esopianeti a base rocciosa, disposti intorno alla Stella e molto vicini tra loro. Tra questi sette pianeti, i tre centrali sono stati inseriti in una zona detta “abitabile”, dove la distanza dal Sole, la temperatura stimata e l’esposizione creano le condizioni teoriche per supportare un’atmosfera vivibile (per noi) e gettano le basi per la vita come la conosciamo.
Questa è la cosiddetta story so far. La conosciamo tutti, l’abbiamo letta, l’abbiamo guardata in conferenza e ce ne siamo fatti tutti un’idea più o meno chiara. Non ci dilungheremo oltre sul versante scientifico, per quanto estremamente interessante, perché ci sono in giro persone più titolate di noi che possono spiegarvelo meglio. Quel che davvero ci interessa di questa incredibile faccenda è il post, i momenti convulsi del dopo-annuncio, quelli colorati dalla difficile digestione di una notizia così grande (per chi riesce a vederla come tale).
Armiamoci e Partiamo!
TRAPPIST-1, con la sua sola esistenza svelata ha generato una marea di commenti di ogni salsa e sapore. I preferiti di chi vi scrive sono i complottisti, in quanto produttori di una quantità industriale di teorie incredibili che partono da Nibiru e il Pianeta X, fino alla prossima invasione aliena o alla negazione totale di tutto, perché tanto “viviamo in un universo inventato come quello di Matrix.” Secondo alcuni importanti portali online, invece, è già arrivato il giorno di fare le valigie e buttarsi sul primo shuttle in partenza. Per altri, è stata annunciata la fermata della Metro C direttamente nella Zona Abitabile. E ovviamente non manca la nuova tratta di Italo, per viaggiare comodi e pieni di comfort per questi quaranta anni-luce…
Però, sia dall’una che dall’altra parte, si parla in un certo senso di prendere un qualche fantomatico mezzo di trasporto e andare a vedere di persona cosa ci sia su questi pianeti. Il ragionamento non fa una piega, soprattutto da parte di un’umanità che ha vissuto accanto al mito del viaggio interstellare, che sia grazie a Star Wars, Star Trek o i romanzi di Asimov e Bradbury. Il binomio “pianeta esterno” e “simile alla terra’ ha generato infinite fantasie di viaggi nel cosmo per andare a trovare un mondo migliore. Questo è bello e utopistico, e ci stimola a farci delle domande cui poi inevitabilmente non sappiamo dare delle risposte. In questo caso ci siamo interrogati (tra le mille altre questioni) sulla fattibilità attuale di un viaggio del genere e sul PERCHÉ dovremmo mai intraprenderlo. È un mix di quesiti che mischiano una buona dose di conoscenze scientifiche (che siamo andati a trovare un po’ in giro tra la rete e i sacri testi) e una altrettanto corposa dose di etica e sociologia.
The Longest Journey
Mettiamoci l’anima in pace: ora come ora (e anche tra qualche anno) non siamo in grado di raggiungere TRAPPIST-1. Ripetelo con noi: TRAPPIST-1 è off limits. Purtroppo questi 40 anni-luce di distanza sono davvero una cifra per ora insormontabile. Non abbiamo una tecnologia tale da trasportare una popolazione per una così lunga tratta, almeno non una ad oggi conosciuta. Riflettiamo: la luce a 300.000 km al secondo impiega 40 anni a percorrere la distanza da laggiù fino a noi. Parliamo di velocità che non sono raggiungibili da nessun mezzo di trasporto allo stato attuale, quindi se mai decidessimo di arrivare fino a TRAPPIST-1 dovremmo accontentarci di andarci piano piano (relativamente e non relativisticamente parlando) e impiegarci anni e anni. Si potrebbe pensare che ad arrivare alla meta saranno le generazioni successive a coloro che sono partiti.
E questo ci espone a due ordini di problemi.
Il primo è quello di avere un mezzo di trasporto tale che possa muoversi ad alte velocità. Su questo punto, per fortuna, è in corso la teorizzazione e la dimostrazione, per adesso solo dal punto di vista matematico, di un motore molto simile a quello a curvatura di trekkiana memoria. Ve ne avevamo già parlato in un altro articolo un po’ di tempo fa (uno maxi-speciale in due parti, qui e qui) e ora più che mai, certe ricerche assumono un’importanza cruciale. Il modello matematico di questo ipotetico mezzo di trasporto interstellare non viola le leggi della relatività einsteiniana, ma le piega, quasi le raggira. La strada da percorrere (in senso lato, ovviamente) è ancora tanta, ma come sempre le basi sono state gettate e la ricerca è pressoché inarrestabile (fondi permettendo).
Il secondo problema macroscopico è quello di riuscire a portare dei fragili esseri umani, non abituati alla gravità zero, fino a destinazione, considerando che il viaggio sarebbe (anche con il motore a curvatura di cui sopra) lunghissimo. Questo impone che ci sia sostentamento per tutti, con ogni bene di prima necessità completamente fornito da un continuo riciclo delle materie esistenti. Inoltre, bisogna pensare che effettivamente ad arrivare a destinazione non sarà l’equipaggio che è partito, ma almeno la seconda generazione di persone. Immaginate la quantità industriale di problemi tecnici, medici, sociali che si dovrebbero prevenire prima di pensare anche solo lontanamente di partire.
Serve un ambiente completamente artificiale in cui sia possibile vivere, e sicuramente riprodursi.
Il sostentamento è uno dei primi scogli: sono in corso una valanga di esperimenti in questo senso, come il CEBAS (Closed Equilibrated Biological Aquatic System), un sistema auto-rigenerante idroponico che mette in relazione (puramente biologica) pesci, micro-organismi e vegetali in un brodo di acqua. Già in sperimentazione dagli anni ‘90, questo sistema ha superato diversi test e sembra essere uno dei più papabili per produrre vegetali a gravità zero con un minimo dispendio di materie prime e un valido compromesso in un’ottica di riciclaggio completo. Un altro studio è quello di Veggie, la prima serra spaziale a gravità zero che nella ISS ha prodotto delle lattughe romane rosse e dei fiori di zinnia. I problemi da affrontare sono quelli di poter creare dei terreni artificiali con il giusto apporto di nutrienti per le piante e illuminati da una corretta quantità di luce, con delle lampade a LED, per esempio.
Un altro scoglio non di poco conto sarebbe la vita a gravità zero, che non è certamente la stessa che sulla terra a 1g. Tutta la fisiologia umana viene stravolta dall’assenza di gravità. I nostri sistemi biologici si sono adattati al fatto che tutto quello che c’è all’interno del nostro corpo tende a cadere verso il basso e la forza di gravità è parte integrante del funzionamento dei nostri apparati.
Un esempio su tutti: la circolazione del sangue. Il cuore pompa il sangue nel corpo e si avvale del fatto che la gravità fa una parte del suo lavoro nel distribuirlo nei distretti più declivi. Nello spazio, la distribuzione del sangue sarebbe completamente diversa: tutto il nostro amato fluido vitale si concentrerebbe all’interno del torace, nella zona con maggior capacitanza, facendo il lavorare male il cuore. Ciò che può accadere è la configurazione di una situazione assimilabile all’edema polmonare, che provoca difficoltà respiratorie, tosse e una sensazione di soffocamento. Analogamente, una quantità di sangue diversa dal normale si accumulerebbe nella testa. Il risultato è una faccia a luna piena, grassoccia, dalle rughe assottigliate (per certi versi non è un male!) e rubiconda. Purtroppo, il fatto che il sangue non scorra giù per gravità (soprattutto nel distretto venoso) espone il cervello a una complicanza davvero spiacevole: l’edema cerebrale.
Sul fronte patologico, poi, molti dei piccoli acciacchi con cui abbiamo a che fare comunemente nella nostra vita sulla Terra, diventerebbero molto più drammatici e anche pericolosi. Prendete una bronchite qualsiasi, di quelle invernali con un po’ di catarro che continuate a buttar fuori con la tosse. Ecco, una cosa del genere si trasformerebbe in un vero incubo a gravità zero. Il catarro rimarrebbe intrappolato a metà strada lungo i bronchi, senza attivare il riflesso della tosse, o facendolo quando è ormai troppo tardi, e un singolo colpo non basta più a eliminare il grumo infetto. Immaginate come queste problematiche possano interferire con la normale comprensione della patologia così come noi la conosciamo sulla Terra.
Quanto esposto finora non è frutto di nostra invenzione, ma fa parte di quella branca in rapido sviluppo e molto affascinante che è la medicina spaziale, un argomento sconfinato di cui solo ora abbiamo scalfito la superficie. Ce n’è per tutti i gusti, dalla fisiologia adattata alla gravità zero fino alla chirurgia in assenza di gravità (che è un vero delirio, fidatevi!). Per amore di completezza abbiamo cercato di essere quanto più vicini possibile alla realtà dei fatti, ma per rendere tutto meno noioso ci sono trattenuti da eccessivi tecnicismi.
Il succo del discorso è che in realtà non siamo affatto pronti per fare un viaggio di queste proporzioni, rischieremmo di suicidarci, senza mezzi termini. Però la volontà c’è, il desiderio di andare a vedere altri mondi ci brucia dentro, e ovviamente non vediamo l’ora di arrivare là dove nessuno mai si è spinto.
Colonizzazione Fase 0
Detto questo, il nostro viaggio non è ancora finito. Anzi, seguiteci in quest’altro pezzo di speculazione. Immaginiamo di aver superato tutti questi problemi: abbiamo la nostra serra idroponica, possiamo curarci e avere figli a gravità zero. La nostra astronave alveare è autosufficiente e ci sta portando da anni verso la nostra destinazione, il nuovo mondo, la soluzione a tutti i nostri problemi. La domanda che ci poniamo ora è: è giusto? Esiste un’etica in un’operazione di colonizzazione?
Se pensate agli Inglesi e al loro Commonwealth, alla Francia e alle sue Colonie, vi renderete conto che spesso queste manovre politico-militari sono una forma di prevaricazione di un popolo nei confronti di altri. Gli Spagnoli arrivano in Sudamerica e sterminano gli Indios. Gli Inglesi decimano gli Indiani Pellerossa. Insomma, nell’atto stessa della colonizzazione è insito un concetto di assoluta violenza: mettere piede in un’altra regione e reclamarla come propria, accampando diritti senza nessun motivo per averne. Il colonizzatore è sempre superiore al colonizzato.
Si verificherebbe la stessa cosa anche nella nostra proverbiale missione spaziale? Saremmo dei prevaricatori, degli usurpatori?
Ecco, secondo noi il nodo del discorso è difficile da cogliere e forse neanche esiste un vero e proprio problema. La colonizzazione quaggiù sulla Terra implica che la regione occupata dai colonizzatori sia abitata, ed è questa la condizione per cui si configura la prevaricazione. Tutta la violenza insita nel concetto stesso di colonizzazione, come abbiamo appena detto, scema completamente se si mette piede su un suolo deserto che nessuno reclama. Per cui, il vero discriminante che farà di noi degli esploratori spaziali o dei colonizzatori brutali sarà se il mondo scelto per il nostro atterraggio sia già abitato o meno.
Per questo il concetto di ricerca di vita nell’universo diventa molto più largo, enorme, con implicazioni talmente ramificate nel nostro modo di pensare da essere quasi ubriacante. Perché a questo punto un ecosistema “alieno”, per quanto sconosciuto, è pur sempre un essere vivente non senziente, un teatro dove forme di vita vivono in armonia. Se arrivassimo noi per alterarlo, quanti danni faremmo? Sarebbe ironico arrivare su un mondo lussureggiante per poi decretarne la fine grazie alla nostra arroganza e ignoranza.
Sarebbe altrettanto terribile non provarci neanche e lasciare che questi discorsi da Avventisti degli Ultimi Giorni condizionino la sete di conoscenza e la curiosità che ha spinto l’umanità in luoghi (tangibili e non) che non si possono neanche raccontare. Il problema di fondo che raramente si prende in considerazione è che ogni forma di giudizio che noi avremmo adesso su un argomento come la colonizzazione spaziale sarebbe sbagliato, sbagliato in termini di prospettiva. Solo immaginare di lasciarsi alle spalle la Terra per arrivare su un altro pianeta cambierebbe completamente il modo di pensare e concepire la vita, altererebbe irrimediabilmente il modo di ragionare dell’uomo, così che ogni speculazione in questo momento nascerebbe fallata e incompleta.
Non c’è una soluzione a tutte queste questioni, una risposta a questi interrogativi, possiamo solo dire che la curiosità è tanta, tantissima, quasi irrefrenabile. L’unico biasimo è che probabilmente non potremo vedere il momento il cui davvero l’Uomo volerà via da questo pianeta, sia egli colonizzatore, studioso o semplicemente ambasciatore.