Creatività e tecnica
Nelle scorse puntate abbiamo visto quella che possiamo considerare l’impalcatura di un romanzo, il suo scheletro, ovvero come si costruisce un personaggio, come si struttura la storia, quali strumenti possono essere utilizzati per garantire la coerenza del tutto e come si effettuano le “ricerche secondarie”, ovvero come si acquisiscono quelle nozioni che servono a dare consistenza al racconto.
Adesso però la storia la dobbiamo scrivere.
La creatività non si può insegnare: è un’attitudine. Chiariamo tuttavia una cosa: non è necessario essere creativi per scrivere un romanzo. Basti pensare ai molti classici che si trovano sugli scaffali di una biblioteca. La maggior parte delle storie sono semplici e spesso seguono modelli la cui origine si perde nella notte dei tempi: amori contrastati, conflitti familiari, tradimenti, fallimenti, successi. I modelli sono quelli perché quella è la natura umana. A parte alcuni generi specifici, come i gialli o i racconti di fantasy e di fantascienza, dove spesso le trame sono articolate e contengono molti elementi che richiedono una certa creatività, buona parte della letteratura segue canoni abbastanza ben definiti, potremmo dire “tradizionali”. Questo non è necessariamente un difetto, perché se si racconta bene, anche una storia non originale può diventare un’opera di rilievo.
C’è anche da considerare che esistono molti scrittori, anche di successo, che producono romanzi un po’ come una fabbrica assembla prodotti. Un esempio classico sono i romanzi “rosa”. Si tratta di prodotti per il mercato, senza troppe pretese ma comunque ben costruiti. Per farli non è necessario essere Jules Verne o Stephen King. Basta avere una buona tecnica e comprendere cosa voglia il mercato di riferimento. Romanzi di questo tipo si possono scrivere in pochi mesi e non richiedono particolari doti creative.
Se tuttavia la creatività non si può insegnare, la si può coltivare, come tutte le doti. Tanto per cominciare uno scrittore, prima di essere tale, dovrebbe essere un buon lettore. Leggere è il nutrimento dell’anima, ovvero, più si legge, più si alimenta la propria capacità di essere creativi. Poi osservare: quando andate in giro, guardatevi intorno, ascoltate le persone, osservate i gesti, le espressioni, i movimenti. Legate fra loro più elementi: come cammina una persona? E che rumore fa camminando? Che scarpe indossa? Su quale tipo di terreno o pavimento si trova? Usate tutti i sensi: non basatevi solo sulla vista. Chiudete gli occhi e percepite gli odori, fate scivolare le dita sul tavolino del caffè al quale siete seduti: è liscio? È ruvido? È freddo o caldo?
In ogni momento della giornata ognuno di noi riceve innumerevoli stimoli senza rendersene conto, eppure questi stimoli influenzano il nostro modo di pensare, di agire, di comportarci. Così avviene per i nostri personaggi. La creatività ha sempre solide basi nella realtà, ne è un’emanazione. In effetti nulla si crea e nulla si distrugge e spesso questo è vero anche per i racconti. Ogni storia, per quanto sembri originale, è sempre il compendio di centinaia di esperienze dirette o indirette, nostre o acquisite leggendo o ascoltando altre persone.
Ma quando e come viene usata la creatività nello sviluppo di un’opera? Sostanzialmente in due fasi. La prima è nella costruzione della storia e dei personaggi, ovvero nell’impostazione di quell’impalcatura che, seppure dovesse seguire modelli precostituiti, lascia comunque ampio spazio alla fantasia dello scrittore. La seconda è nello sviluppo dei dettagli, ovvero nel riempimento di quello scheletro che abbiamo costruito, nella “carne” vera e propria del romanzo.
Concentriamoci su questo secondo aspetto: supponiamo di aver già definito trama e personaggi e di essere in procinto di scrivere un capitolo. Sappiamo già cosa dobbiamo scrivere e cosa deve succedere, più o meno, perché abbiamo già superato la fase di impostazione, ovvero abbiamo per ogni capitolo una sorta di sinossi da sviluppare. Adesso dobbiamo scrivere una scena. Come facciamo?
Ognuno ha una sua tecnica. Io ve ne suggerisco una: chiudete gli occhi e provate a immaginare quella scena. Non limitatevi a pensarla a grandi linee, ma analizzate ogni singolo dettaglio. Ad esempio, si svolge in una stanza: bene, immaginate di essere al centro della stanza e guardatevi intorno. Cosa vedete? Che mobili ci sono? C’è una finestra? Come è illuminato il vano? È notte? Giorno? Cosa c’è sulle pareti? C’è solo un ingresso? E sul pavimento?
Avete fatto? Perfetto, ora provate a percepirla, non solo a vederla. Che odori sentite? Di vecchio, di vernice fresca? L’aria è tiepida o fredda? Probabilmente il 90% di quello che state vedendo o provando non verrà mai descritto nella scena che state scrivendo ma caricarvi di queste sensazioni ed emozioni vi permetterà di dare un’impronta forte alla vostra scena, di trasmettere al lettore buona parte di quello che state provando.
E ora i personaggi. Chi c’è in quella stanza? È vuota o c’è già qualcuno? Deve entrare qualcun altro? E come? Bussa o apre la porta, o forse la porta è già aperta e chi sta nella stanza sente i passi nel corridoio? Ogni scelta dà alla scena un significato diverso. Può creare attesa o tensione, rilassare o preoccupare. Il lettore deve percepire queste emozioni attraverso la propria immaginazione ma dovete essere voi a stimolarla, con luci, suoni, odori, sensazioni.
E siamo al dialogo. Due persone nella stanza che iniziano a scambiarsi delle battute. Scrivere un dialogo è tutt’altro che semplice. Non è tanto quello che si dice ma come lo si dice. Un buon scrittore è in genere qualcuno che ha una buona conoscenza della lingua in cui scrive: è attento alla grammatica e alla sintassi, alla costruzione delle frasi. La lingua scritta, tuttavia, è molto diversa da quella parlata e un dialogo è appunto quest’ultima: lingua parlata. Per assurdo, sebbene scritto, un dialogo segue altri canoni rispetto al testo che lo contorna. Può essere spezzato, inconcludente, irrazionale, illogico, sgrammaticato. Non solo riflette le capacità orali del personaggio ma anche le sue emozioni. L’intellettuale che balbetta davanti alla ragazza di cui è innamorato, il vecchio contadino analfabeta che, pur con un linguaggio semplice e dialettale, riesce a impostare un discorso complesso e mostra una saggezza inaspettata. Ognuno di noi poi parla in modo diverso, usa intercalari, sbaglia i tempi di un verbo, utilizza in modo improprio un certo termine, si blocca a metà di una frase e cambia discorso. La stessa frase detta da un uomo o da una donna, poi, può suonare differente, e lo stesso vale per le differenze di orientamento sessuale, di età, di cultura o etnia. Ogni frase riflette ciò che siamo anche se l’oggetto stesso della frase è banale.
E poi c’è il tono della voce. «Sono stanco.» Due parole che possono essere pronunciate con un tono piatto, lontano, neutro, distaccato, oppure con un sospiro, con rabbia, con la voce spezzata. Le stesse parole, pronunciate in modo diverso, assumono un significato diverso. Quindi un dialogo non è solo una sequenza di botte e risposte ma è intercalato da tutti quegli elementi che oggettivamente mancano in un testo: i suoni, le immagini, le sensazioni e i pensieri dei personaggi. Inoltre, per non farlo diventare troppo pesante, è utile inframezzarlo con descrizioni di ciò che sta succedendo mentre le due persone parlano: l’uomo si è alzato e si è messo a guardare dalla finestra; la donna è andata verso un ripiano, ha preso una bottiglia e si è versata due dita di gin; in lontananza si sente la sirena di un’ambulanza; dall’altra parte della parete un bambino sta piangendo… Non concentratevi mai solo su ciò che serve o è funzionale alla storia: aggiungete particolari apparentemente “inutili”, che non servono alla trama ma ne determinano l’ambientazione.
Se poi personaggi coinvolti nel dialogo sono centrali alla storia, il loro modo di parlare deve essere definito quando avete costruito il personaggio e deve essere coerente col personaggio stesso e con il suo passato. Se invece si tratta di personaggi secondari, fate riferimento a un modello: l’ubriaco appoggiato al bancone del bar che sbiascica le parole; il vecchio che per strada chiede l’elemosina con la voce roca; la prostituta che passando vi invita a fare un giro con lei con tono malizioso ma allo stesso tempo falso, chiaramente provato e riprovato innumerevoli volte. Ogni personaggio ha i suoi modi di dire, ma bisogna anche evitare di essere troppo stereotipati. È importante dare al dialogo una sua naturalezza.
Un dialogo reale è spesso spezzato, devia dal percorso per poi ritornare sull’oggetto principale o allontanarvisi definitivamente. Ma chi ne controlla il percorso? Può essere uno dei due personaggi, mentre l’altro lo subisce, oppure può essere un confronto alla pari, in cui ognuno spinge in una certa direzione. Le due voci possono convergere su un punto o divergere, allontanarsi. Se poi abbiamo tre o più personaggi, la cosa diventa ancora più complessa. A volte un dialogo è una prova di forza, a volte un modo per sondare l’altro o manipolarlo, a volte è un intrecciarsi naturale di pensieri di due estranei, come può succedere in uno scambio di frasi fra due persone che si incontrano in treno.
I rischi maggiori in un dialogo sono due: far parlare tutti i personaggi come parla lo scrittore, e usare per i dialoghi lo stesso stile che si usa per il resto del testo. Un dialogo è un elemento “estraneo” al testo principale e tale deve sempre essere. È qualcos’altro rispetto al racconto. Non dimenticatelo mai.
Un altro elemento importante di una storia oltre al dialogo è la descrizione. Si può descrivere un paesaggio o un’emozione, come è vestita una persona o cosa stia provando un personaggio. Le descrizioni, sebbene prosa, hanno spesso in comune con la poesia l’uso volutamente scorretto delle parole, modi di dire, la costruzione di metafore, l’utilizzo di termini al di fuori del loro contesto, l’assegnazione a una parole esistente di un nuovo significato. La superficie metallica del mare o quell’odore di ricordi che avevano le rose. Le parole non devono qui seguire necessariamente un filo logico ma generare nel lettore una sensazione o un’emozione. Il problema è che la maggior parte delle sensazioni e delle emozioni non hanno un nome.
Facciamo un esempio: il sapore. Scientificamente parlando esistono cinque sapori base: dolce, salato, acido, umami, amaro. Quando assaporiamo un cibo, generalmente sentiamo qualcosa che è una combinazione di due o più di questi sapori. In un romanzo però non possiamo descrivere un sapore in questo modo. Sarebbe troppo freddo e sostanzialmente non funzionale alla storia. Anche solo dire che qualcosa è dolce, può non rendere l’idea. La nostra mente percepisce le sensazioni in modo molto più raffinato e ogni sensazione scatena associazioni di idee e ricordi. È appunto attraverso queste associazioni che possiamo descrivere in modo più appropriato cosa stia provando il nostro personaggio. Inoltre, quando assaggiamo un cibo, il solo sapore non rende da solo la sensazione che stiamo sperimentando: un altro elemento importante è infatti la consistenza. È croccante? Morbido, soffice, spugnoso? Duro e fibroso oppure cedevole e viscido?
Qualcuno si chiederà perché sia tanto importante descrivere il sapore che sente un personaggio mentre sta mangiando. Può non esserlo in effetti, oppure può essere il punto di partenza per un pensiero, per una considerazione che il personaggio deve fare e che viene scatenata appunto da quel particolare odore o sapore.
Tenete presente che una storia può essere spesso considerata una sequenza di cause ed effetti che a loro volta diventano cause di altri effetti. Facciamo un esempio: il nostro protagonista sta per fare una rivelazione importante a una persona che gli interessa ma qualcosa deve impedirglielo. Non serve nulla di particolare, può bastare una chiamata al cellulare per interromperlo e far sì che la persona alla quale voleva dire la verità si volti e se ne vada. Questo potrebbe innescare una serie di incomprensioni il cui risultato finale potrebbe essere tragico. Sarebbe bastato che quel cellulare non avesse squillato, ovviamente, ma è successo. È l’effetto “sliding doors”. Uno scrittore usa tutto ciò che ha a disposizione per far sì che le cose avvengano o non avvengano. Basta saper calibrare bene gli eventi.
Un discorso analogo ai sapori è quello relativo ai colori. Sebbene esistano molti nomi di colori, ben pochi sono noti ai più. Ad esempio, chi mi sa dire in cosa sia differente il verde caraibi dal verde marino o il verde muschio? Usare un nome che non abbia corrispondenza nel vissuto del lettore è solo un inutile esercizio di stile. Lo scopo non è dimostrare quanto si sia bravi a scrivere o quanta cultura si abbia ma di trasmettere qualcosa al lettore. Se quel qualcosa non arriva, abbiamo solo perso tempo.
E se dicessi che quel giallo ricordava il luccicare sotto il sole di un campo di spighe dorate? Se dicessi che quel verde era così sbiadito da essere quasi grigio? Se parlassi di un blu così profondo che a tratti sembrava quasi metallo fuso? Non devono essere affermazioni logiche, ma devono suscitare una sensazione partendo da realtà con le quali il lettore ragionevolmente potrebbe essersi dovuto confrontare in passato. Certo, se chi legge non ha mai visto un campo di grano neppure in fotografia, la cosa potrebbe rivelarsi più ardua del previsto, ma se facciamo riferimento a esperienze quotidiane, probabilmente saremo in grado di far giungere il messaggio così come l’abbiamo pensato.
È per questo che a volte è difficile leggere un libro scritto da qualcuno che non appartiene alla nostra cultura, per quanto possa essere ben tradotto. Nonostante la globalizzazione e i media, ci sono realtà che, se non le vivi, non le potrai mai comprenderle e quindi potranno essere percepite solo in parte. Pensate al famoso Carosello, che ha rappresentato per più di una generazione di italiani un vero e proprio evento cult, oltre a stabilire il limite oltre il quale i “bambini dovevano andare a letto”. Uno straniero e probabilmente anche un ragazzo nato nel XXI secolo, non potranno mai capire cosa abbia significato per molti quello che apparentemente è solo un intervallo pubblicitario. Eppure è stato un elemento culturale con un suo significato, che riportato in un racconto, può essere utilizzato come riferimento, ad esempio per giustificare determinate dinamiche familiari all’interno di una storia.
Dialoghi e descrizioni. Che altro? Scene, ovvero situazioni dinamiche che vanno oltre alla semplice descrizione. Una scena sta a una descrizione, infatti, come una fotografia sta a un filmato. Una scena d’inseguimento, un duello, un pedinamento, una corsa con una moto oppure una partita a tennis. Cosa dico? Faccio una semplice “telecronaca”? Ovviamente no. Se ho messo quella scena è perché serve alla storia. Limitarsi a descriverla servirebbe a poco. Ma come descrivo una scena?
Qui, più che in ogni altro aspetto del nostro romanzo, diventa importante il “punto di vista” o PdV (POV in inglese, point of view). Da quale punto di vista sto parlando? Esterno, quello del narratore? Interno, ovvero quello di uno specifico personaggio? E se uso quest’ultimo, lo uso sempre o lo alterno con il PdV esterno? E ha senso alternare due PdV interni di due personaggi diversi?
Per rispondere a queste domande — anticipo che non esiste un approccio giusto o sbagliato ma solo uno funzionale o meno alla storia — dobbiamo prima capire cosa sia il PdV.
Se ragioniamo in termini visivi il PdV è il punto dal quale osservo e, quindi, posso descrivere una scena. Se tuttavia lo vediamo in una prospettiva più ampia, esso definisce anche cosa posso descrivere e cosa no. Consideriamo ad esempio il punto di vista esterno “stretto”, ovvero quello di qualcuno che sia totalmente esterno alla scena: in questo caso avrò una descrizione asettica di quello che sta succedendo. Questo approccio è tipico delle sceneggiature cinematografiche, dove ci si limita a riportare cosa succede, inclusi i dialoghi, senza alcuna considerazione su ciò che i personaggi provino o pensino. Un altro PdV è quello esterno “esteso”, tipico di molti romanzi, dove i personaggi sono trasparenti al narratore che quindi non solo è in grado di dire cosa stia avvenendo ma quali siano i pensieri, le sensazioni e le emozioni di tutti i personaggi in gioco.
Ci sono poi i punti di vista interni, quelli relativi ai vari personaggi. Ad esempio, potrei scrivere un romanzo tutto in prima persona. Una scelta di questo genere può essere molto efficace sul piano narrativo, ad esempio simulando un diario, ma pone dei problemi su cosa si possa o non si possa raccontare. Se uso un punto di vista specifico, non potrò dire nulla che non risulti evidente a quel personaggio. Non può raccontare cose che non ha visto e che stanno comunque succedendo, se non sfruttando trucchi come quello di farlo dire da un notiziario o leggerlo su un giornale. Se tuttavia è importante che una certa cosa non la sappia, non ci sarà alcun modo di dirla nel romanzo a meno di non saltare temporaneamente su un punto di vista esterno. Inoltre un PdV interno non permette di sapere cosa provino o pensino altri personaggi. Per questo motivo a volte i PdV interni si alternano ad altri PdV interni o a quelli esterni. Questo scambio è molto delicato perché se fatto molto frequentemente può confondere il lettore.
Il PdV interno può essere molto utile a creare tensione, come in un racconto dell’orrore, o a sviluppare una soggettiva molto intensa di un evento che coinvolge molte persone, come uno sbarco di truppe su una spiaggia sotto il fuoco nemico, la cui descrizione, dall’esterno, potrebbe non essere altrettanto efficace. Può altresì essere utilizzato per approcci più “intimistici”, come un percorso di maturazione personale da parte del protagonista a fronte di un qualche evento traumatico che gli ha fatto mettere in discussione i valori in cui credeva.
Una volta scelto un punto di vista, bisogna poi mantenersi coerenti ad esso altrimenti si possono creare situazioni “imbarazzanti” non solo sul piano stilistico ma anche su quello dei contenuti. Un esempio è dire qualcosa che il protagonista non può o non dovrebbe sapere.
A questo punto abbiamo creato l’impalcatura e l’abbiamo riempita di contenuti. Cosa resta? La revisione, ovviamente, ma di questo parleremo un’altra volta.
A cura di Dario de Judicibus