La scienza della fantascienza
La NASA ha scoperto che esiste un sistema planetario con addirittura 3 pianeti che potrebbero sostenere la vita. La cosa in sé è entusiasmante, ma in quanto autore ne approfitto per parlare di come la scienza può essere utilizzata (e fino a che punto vale la pena farne uso) in un racconto, o in un fumetto, di fantascienza.
La cosa che più mi ha entusiasmato della recente scoperta della NASA, non è stato tanto il realizzare che a 49 anni luce da noi esistono tre mondi –probabilmente– abitabili, bensì tutta l’analisi dell’ecologia del sistema planetario appena osservato. Il sole del sistema Trappist è una piccola stella rossa, poco luminosa e minuscola (pare che sia poco più grande di Giove, ma con massa chiaramente molto più grande). Per questo motivo, i pianeti del suo sistema le girano attorno molto strettamente: un anno su quei pianeti non dura che qualche settimana al massimo. Inoltre è probabile che mostrino sempre la stessa faccia alla stella, e di conseguenza le differenze ambientali tra il lato chiaro e il lato scuro del pianeta devono essere enormi. Infine, cosa non meno eccitante per un autore di fantascienza, le orbite dei pianeti sono così ravvicinate che potrebbero “influenzarsi” a vicenda, quindi il passaggio di un pianeta in prossimità di un altro creerebbe maree non indifferenti (se sulla superficie ci fosse acqua) o altri sconvolgimenti climatici.
Tutti questi elementi sono uno humus fantastico per un racconto spaziale, un autore potrebbe immaginare alieni costretti a gestire le catastrofi, esplorazioni dei lati oscuri ghiacciati di ogni pianeta, panorami celesti dominati da enormi pianeti che transitano vicini come lune, per non parlare del fioco sole bruno che risplende su questi mondi.
Ma io credo che un autore bravo sappia (e nel caso debba) creare sistemi, mondi e universi scientificamente coerenti senza bisogno dell’aiuto della NASA, perché chi scrive fantascienza dovrebbe partire dalla scienza che non è “fanta” prima di spiccare il salto nell’ignoto, e declinare le conoscenze umane in modo fantasioso. È un esercizio che chi scrive fantasy, per dire, non è tenuto a seguire. E nemmeno chi scrive le trame di Star Wars, per fare un esempio di fantascienza che di scienza ha ben poco. Chi scrive fantascienza oggi non può permettersi di dare per scontata l’ignoranza dei suoi lettori, e non deve concedersi il lusso dell’approssimazione, o almeno questo è il mio obiettivo quando scrivo fantascienza. I lettori di fantascienza sono mediamente più istruiti e informati rispetto a 50 anni fa. Se scrivo di un mondo eternamente piovoso, aggiungo piante prive di clorofilla o che abbiano sviluppato evolutivamente un modo per captare la poca luce che filtra dalle nubi eterne del pianeta (oppure evito le piante e aggiungo vegetazione che somigli a funghi e licheni). Alle abitazioni dei coloni, aggiungo ruote d’acqua e cisterne perché le precipitazioni incessanti saranno sicuramente sfruttate per produrre energia, come in un mondo ventoso si farebbe con le pale eoliche e in un mondo soleggiato con l’energia solare. Le rocce saranno lisce, gli animali pallidi o del tutto privi di pigmenti epidermici. Questi dettagli rendono la narrazione (cioè quello che succede all’interno del racconto, il vero il motivo per il quale questo ambiente è stato ricreato) più realistica e verosimile. È quello che ho fatto nell’ultimo fumetto che ho scritto per la 24 ore Comics, intitolato “Drain”. Andate a leggiucchiarvelo, se non l’avete ancora fatto.
La premura di un autore di fantascienza sta quindi nello spostare l’asticella oltre la banalità, e cioè non contare sull’ignoranza (relativa, ovviamente) di chi legge. Per molti lettori, la descrizione di una pianta priva di pigmento su un pianeta piovoso sarà solo una trovata scenografica, ma quelli che possiedono un minimo di conoscenze di botanica si sentiranno gratificati dal fatto di essere stati considerati. Poi sarà sempre il punto di “rottura” della credibilità, altrimenti non sarebbe fantascienza ma solo scienza applicata, quindi è chiaro che un professore di Fisiologia Vegetale potrebbe comunque sgamare l’artificio narrativo, ma potete sentirvi lusingati che per scoprirlo ci sia stato bisogno di lui.
È altrettanto vero che tutto questo sforzo forse non serve. In fondo, si tratta di “qualità” e ci sono racconti di fantascienza bellissimi che non si fregiano di essere così ben studiati. Però a me piace quando un racconto trasuda qualità, artigianalità, amore per i dettagli. Per farvi un esempio, ho amato le larve di insetto fluorescenti presenti nel mondo di Pitch Black (con Vin Diesel), che utilizzavano la luce per proteggersi dai predatori, che da essa erano feriti. Ho anche adorato, sempre in quel film, la descrizione di un mondo dove non è mai notte finché un pianeta non eclissa uno dei due soli, e quindi dove i coloni avevano basato ogni tecnologia sull’energia solare. Peccato che il sistema solare descritto avesse il pianeta al centro tra due soli, un po’ poco credibile. Ma ci siamo capiti, no?
A cura di Luigi Bigio Cecchi