Apologia della noia, un’esperienza personale
Caparezza cantava di essere fuori dal tunnel del divertimento, ma a preoccuparmi non è tanto quell’esigenza impellente e ebete che costringe i vuoti di testa a divertirsi a tutti i costi, quanto il fatto che ormai non ci si annoia più abbastanza, con conseguenze -a mio parere- devastanti.
Sono cresciuto in campagna. O meglio, in una casa in campagna, in periferia di un paesello medio-borghese di provincia noto sulle mappe come Bracciano, a metà strada tra Roma e Viterbo. Quando uscivo da scuola, alle elementari, vedevo gli altri miei compagni che si organizzavano per il pomeriggio. Molti di loro, abitando in paese, si sarebbero visti ai giardini pubblici per giocare a palla, o fare qualsiasi altra cosa andasse loro di fare. Tanto io non ci potevo andare. Salivo in macchina e tornavo a casa, a qualche chilometro dal paese. Fatti i compiti, quelle due o tre cazzatelle che la maestra ti assegnava per essere felice di correggertele, mi ritrovavo ad affrontare il gigantesco e soverchiante vuoto pneumatico del pomeriggio.
Mia madre, che era al lavoro e rincasava tardi, pretendeva che io vedessi al massimo un’ora di televisione. In maniera innocentemente disonesta mi concedevo di vederla per un’ora e mezza: tre cartoni animati. E poi? …poi girovagavo per casa. Senza un’idea precisa di cosa avrei combinato.
La noia, quella cosa che si prova quando non si ha veramente una cippalippa da fare, unita all’esuberanza congenita di un bambino delle elementari, mi portava sempre a inventarmi qualcosa. Finivo a scavare buche nel giardino, a riempire disegni di quaderni, a far volare transformers sulle ringhiere delle scale e sotto l’acqua della fontana, a costruire cittadelle intere di Lego, a inventare storie sceme per mia sorella animando qualche suo pupazzotto.
I miei compagni di scuola, era evidente, non provavano la noia. Non potevano: erano troppo impegnati ad andare al corso di basket pomeridiano, o a vedersi per giocare a carte (maledetto Magic), oppure più semplicemente, giravano per le strade del paese. Lo struscio.
Per me invece ogni giorno era una sfida, ogni pomeriggio occorreva arrivare a sera e trovare per forza qualcosa da fare per colmare la clessidra. Potevo contare solo su me stesso, o al limite sull’aiuto di mio fratello o di mia sorella, che comunque erano entrambi molto indipendenti e quindi si trovavano da soli qualcosa da fare. Acchiappavo lucertole al sole, costruivo astronavi con le sedie del porticato, leggevo Topolino e qualsiasi altro fumetto che mi capitasse a tiro (mio padre e i miei zii ne compravano diversi). Alla fine, credo di aver sviluppato una dipendenza patologica dal fare cose.
Sì perché se ho del tempo, non riesco a non impiegarlo, a stare con le mani in mano. Non parlo di mero lavoro, di fatica, di esercizio. Anzi, quello un po’ lo aborro. Il faticare fine a se stesso. Parlo della creatività, del costruire cose, inventare, generare, dare vita a qualcosa. Che io abbia una matita in mano, un computer sotto le dita o dei mattoncini Lego a disposizione, l’imperativo è: impiega il tuo tempo in maniera costruttiva. Niente mi stressa più dell’ozio e del fare nulla. Ci sono così tanti libri che vorrei leggere, fumetti, film da vedere, cose da imparare. Perché smettere di crescere, di arricchirsi, di migliorarsi?
E poi la sera, prima di addormentarmi, mio padre mi raccontava una storia. Sempre diversa, se la inventava di sana pianta. La magia del racconto, la fantasia del momento. Spesso erano storie stupide (d’altronde mio padre non era uno scrittore, aveva un negozio di ferramenta), ma ero abbastanza piccolo da trovarle sempre originali e comunque, immancabili.
Ora vado dall’analista, che mi dice che devo fermarmi e darmi dei tempi, perché il mio cervello brucia troppo e se non mi pongo dei paletti, sarei in grado di lavorare 24 ore su 24. Ha ragione, mi capita spesso di lavorare per ben più di 8 o 10 ore al giorno, e lo faccio con estremo piacere. Perché ho la fortuna di fare un lavoro che mi permette di essere creativo, e di dare sfogo alla mia creatività in moltissimi modi: disegno, scrivo, progetto giochi. E credo che tutto questo sia merito della noia, senza la quale non avrei prodotto tutti questi anticorpi. Sia benedetta la noia, la auguro un po’ a tutti voi.
Luigi Bigio Cecchi