Cronaca di un flop annunciato. Una storia falsa. Credo.
Si pensa che fare il creativo sia solo il lavoro eccitante e spensierato di qualcuno che non ha mai smesso di giocare. Forse è anche vero, ma rientra in quell’1% di ispirazione che si contrappone al restante 99% di traspirazione.
Dopo aver traspirato per una quindicina di anni, Stefano Bonfanti vi delizia con una storia delle ordinarie frustrazioni di chi non ha mai smesso di giocare. Ove per “giocare” si intende una partita a tressette contro un’orda di criceti sotto speed.
Ogni riferimento a prodotti, multinazionali, criceti e lupi mannari è puramente casuale. Tutto il resto no.
Un caffè. Non pensavo ad altro.
La periferia della grande città, fra palazzi direzionali e aree verdi che dubitavo mai un cane avesse profanato con le sue deiezioni, si lasciava scrutare pigra attraverso le veneziane mentre ne dilatavo due lamelle fra indice e medio.
La sala riunioni della multinazionale della quale avevo varcato i tornelli una buona mezz’ora prima sembrava contagiata da quell’apparente pigrizia. E io scemo ad aver corso in autostrada.
Non era affatto la prima volta in cui lavoravo col marketing di una realtà grande, gerarchizzata e praticamente onnipresente sul mercato. Forse, anzi, conoscevo meglio le dinamiche di quel contesto che di quello del pescivendolo di provincia che vuole rinnovare il logo, ma con quei signori in particolare ero solo alla seconda riunione.
Quello che però mi era già lampante è che la collaborazione in questione fosse il paradigma – o forse la caricatura – di tutto ciò che c’era stato di patologico nella decina di anni “da creativo” che avevo alle spalle.
Proprio lì, in una sala riunioni della Omni Consumer Products, mentre i miei neuroni reclamavano caffeina, attendevamo l’addetta alle ricerche di mercato che ci illustrasse i reports della “qualitativa”, in base ai quali valutare se e quali correzioni apportare al progetto. E dire “se” era del tutto pleonastico.
La collaborazione stessa era iniziata in maniera molto eloquente. Un’agenzia di comunicazione ci aveva messi in diretto contatto col committente dopo una piccola gara iniziale, della quale un paio di mesi prima avevamo esultato per essere stati “gli eletti”.
Il brief era in sé piuttosto semplice: sfornare una nuova serie di illustrazioni per i Saponeaty, le celeberrime saponettine profumate per bambini, abitualmente acquistate anche dagli adulti per la loro indiscutibile qualità.
Come tutti sapranno, su entrambi i lati della coloratissima saponetta è riportata in scultura una simpatica vignetta, visibile specialmente quando la bianca schiuma si deposita nelle sue fenditure. Certo, non ci si può certo studiare su una graphic novel, ma dato che il target è quello junior, sicuramente le possibilità ci sono.
E poi, per quanto non fosse la prima volta, c’era comunque quel vago senso di soddisfazione nel mettere il proprio DNA creativo su un prodotto del quale, da bambini, eravamo entusiasti fruitori. Quasi sentivo l’odore della lavanda sprigionatasi ogni volta che mi lavavo le mani da bambino, mentre quelle piccole perle di fantasia emergevano attraverso la schiuma. Senza contare le grandi firme del fumetto che mi avevano preceduto in quella particolare applicazione – del tutto dignitosa – della nona arte. Oddio… ultimamente il prodotto si era ripiegato un po’ su se stesso ma, in fondo, avevo finalmente modo di dire la mia su un nuovo corso creativo che lo riportasse agli antichi fasti.
Sì, lo confesso. Nonostante il decennio sul campo, ero ancora propenso a farmi illusioni.
Parimenti illuso, pensavo che la gara iniziale fosse semplicemente uno sfoggio di esperienza e talento nell’approcciarsi a quella sfida obiettivamente connotata da evidenti limiti tecnici: vuoi per la particolare applicazione dell’illustrazione sul prodotto, vuoi per il target costituito da quell’unica categoria pienamente giustificata per il suo semi-analfabetismo.
No. Sin da subito emergevano quelle perverse dinamiche fornitore-committente sintetizzabili col motto “il creativo sei tu, le idee sono mie”. Tre temi da proporre: due semplicemente ispirabili a quel concetto del bello di essere puliti che il prodotto vuole comunicare. L’altra la dovevamo inventare noi, sì, ma il brief era un tantinello più articolato.
“Proponeteci una serie in cui un esercito alieno combatte per portare la sporcizia nel genere umano, ma i nostri eroi puntualmente lo ridicolizzano vanificandone gli sforzi”.
Uh… ok. In effetti resta poco da dire, ma magari ce la giochiamo sulla caratterizzazione dei personaggi. E comunque proviamo a stupirli con gli altri due concept a tema libero: siamo certi che la semplicità è sempre il miglior ingrediente.
E così, firmati gli inesorabili patti di riservatezza in base ai quali mai dovessimo spifferare alcunché sui dettagli della nostra collaborazione (chiedetevi dunque cosa diavolo stiate leggendo adesso), ci siamo buttati a capofitto sulla lavorazione delle tre proposte.
Il primo era un tema piuttosto generico “baby”, che ci lasciasse campo libero per la più vasta disponibilità di gag, dato che quaranta soggetti da sviluppare al volo sono tanti. Semplice e conciso, ce la saremmo giocata poi sulle singole vignette.
Del secondo ne andavo piuttosto fiero: bimbo e bimba umani, il loro papà era invece uno strano porcello contraddistinto da una spiccata tendenza a sporcarsi. I tentativi dei due pargoli di tenerlo pulito sembravano una miniera di situazioni esilaranti. Beh, certo, col metro del nostro giovane pubblico, s’intende.
Il terzo concept, come detto, era già scritto da loro. Ma noi lo avevamo condito con una caratterizzazione che aveva fatto breccia quando – immancabilmente e chissà perché – la Omni Consumer Products lo aveva eletto il progetto vincitore in assoluto (con buona pace del papà porcello).
Gli alieni, stilizzati in poche nette righe, avevano un corpo antropomorfo vestito in corporate suit e la testa invece somigliante a una nuvola di sporcizia. Col basco militare. Una sorta di parodia della moderna industria bellica, non troppo dissimile da quello stesso committente nella cui sala riunioni stavamo per pianificare l’ultimo assalto al mercato.
Non ricordo chi mi telefonò, anche perché i ruoli in quelle realtà sono contraddistinti da una lunga serie di parole in inglese tipo “Junior Cluster Products and Trade Development Manager”, ma quel che è certo è che il mio interlocutore era entusiasta delle “teste a macchia”.
Ok, macchia o nuvola di sporcizia, fa niente. L’importante è aver solleticato le corde giuste: alla fin fine, si lavora più sulla connotazione che sulla denotazione e quindi cercare un significato puntuale di ogni singolo dettaglio diventa un passatempo inutilmente didascalico.
Da lì, qualche settimana di lavoro ed ecco la prima infornata di vignette per i nostri adorabili Saponeaty. Una bella sudata perché, pur coscienti che l’incisione sul sapone imponesse rigidi standard di spessore delle righe e divieti di campiture nette (se no la schiumetta non era più in grado di evidenziare i dettagli) nelle dimensioni risicatissime disponibili, ogni volta i requisiti erano sempre più restrittivi. Anche perché i caratteri delle scritte debbono essere cubitali, se no i piccoli lettori hanno difficoltà.
Chiedere sin dall’inizio degli standard oggettivi, come lo spessore minimo e massimo in punti delle linee e le dimensioni delle font, era la solita battaglia persa. Da che mondo è mondo, un creativo lo sa benissimo che quel tipo di informazioni arriva solo a lavoro finito.
La qualità dell’output ne aveva risentito, ovviamente, perché i disegni dovevano essere assolutamente scevri da dettagli e i dialoghi estremamente lapidari. Non buono quando la dinamica tipica della comicità è crearti delle aspettative e poi falsarle con esiti imprevedibili (il classico “splash!” del signore che entra in un caffè, per intendersi).
Giocarsi due momenti distinti in un’unica vignetta impone che le aspettative facciano dunque già parte dell’immaginario del lettore, in modo che basti raffigurare il momento culminante in cui le vai a spiazzare. La satira, per esempio, funziona bene così perché ogni vignetta si inserisce in un contesto già messo in bella vista dal bombardamento di giornali e TG. Lì basta un ammicco fatto bene e la risata è assicurata.
Ahimé, nel nostro caso, non aiutava il fatto che il pubblico fosse intellettualmente digiuno di alieni con la missione di farci diventare tutti dei sudici puzzoni.
“Tranquilli: la gente sarà pienamente cosciente del contesto, dato che lanceremo una massiccia campagna promozionale che lo descriverà alla perfezione!”
Siamo a cavallo, allora. Di lì a poco un’orda mondiale di consumatori non farà altro che pensare a quegli sporchi extraterrestri.
E comunque l’aspetto buffo delle teste a nuvola (o a macchia, come volete), aiuterà.
Eccomi lì, dunque, a scrutare dalle veneziane mentre ingannavo il tempo che mi separava dal verdetto delle ricerche qualitative di mercato.
Una parte di me già si sentiva che quel “qualitative” sarebbe stato una condanna a morte.
Nell’altro tipo di ricerche, le “quantitative”, il campione degli intervistati si limita a dare un voto al prodotto. Sui grandi numeri, è piuttosto rappresentativo del gradimento del pubblico e quindi lo strumento è relativamente utile. Relativamente. A volte l’innovazione richiede del tempo per essere digerita, e poi va contato l’inquinamento psicologico della consapevole rivalsa del signor Rossi, che si solleva dalla sua mediocrità e finalmente si erge a giudice di quei marchi che fino ad allora avevano condizionato le sue routine di consumo.
Ma le “qualitative”, invece, sono il male.
Lì l’intento dichiarato dalle aziende è “dare un’annusata” agli atteggiamenti dei consumatori, per trarne utili spunti di riflessione. Nella pratica diventa la dittatura del panel di casalinghe e pensionati sul libero arbitrio del creativo professionista (quand’anche lo si possa definire “libero”).
L’addetta alle ricerche finalmente era arrivata, salutando con un pesante accento tedesco, e si era messa a sciorinare una caterva di slides in PowerPoint che, tanto sono identiche di ricerca in ricerca per i prodotti più disparati, pensavo fossero quasi dei templates forniti gratuitamente dalla Microsoft.
Il suo tono era inappropriatamente vivace, mentre i responsabili di marketing (detti anche “Brand and Keyproduct Position Scoundrel Werevolves” o altre simpatiche dizioni anglofone di fantozziana memoria) assistevano con sguardo grave e palpebra a mezz’asta.
Le slides si susseguivano, mentre si attendevano gli impietosi giudizi del panel di mamme su quelle deliziose saponettine che avrebbero potuto danneggiare gravemente l’innocenza dei loro pargoli.
Ed eccole infine.
L’orda di sciure sembrava riversare la frustrazione di vite costellate da ammorbidenti scadenti e surgelati insipidi in un semi-turpiloquio ai danni dei nostri simpatici extraterrestri puzzoni.
Ma il verdetto più chiaro era: “e che diavolo è quella testa con la forma strana? Non si capisce, non si capisceee!”.
L’annusata dei manager mannari aveva sentito odori troppo acri, evidentemente. Dei secchi “no” venivano mimati ondeggiando con decisione il capo e gli utili spunti di riflessione si erano trasformati nel divieto assoluto di fare quelle “teste strane”.
Hai voglia di opporre il fatto che poche settimane prima, quegli stessi signori avessero fatto balzi di entusiasmo per quel dettaglio che ci aveva eletti fornitori.
E parlare di denotazione e connotazione faceva solo sì che quelle palpebre a mezz’asta fissassero un punto nel vuoto dietro alla mia testa mentre educatamente argomentavo le nostre scelte artistiche. Se pensate che gente con diplomi di laurea delle più prestigiose university attaccati pure sulle chiappe siano esenti dall’avere in testa la famosa scimmietta che suona i piatti mentre stai parlando, avete ancora qualcosa da imparare.
La corte aveva decretato: condanna a morte per la creatività.
Ripartire da capo, quaranta soggetti diversi. Tratti spessissimi e caratteri cubitali su pochi centimetri quadri di saponetta. Concetto cervellotico per personaggi banalmente antropomorfi e… senza teste strane.
Ah, ovvio: compenso e scadenze invariati. Per carità.
Inutile dire che per arrivare a quei quaranta soggetti diversi, avevamo mandato in approvazione chissà quante volte tanti concetti, puntualmente depennati per la stragrande maggioranza e con criteri non troppo dissimili a un testa o croce.
Mesi dopo…
La famosa riunione in astinenza da caffè era ormai un ricordo e le Saponeaty erano sul mercato. Non so se mai abbia visto uno spot che fosse uno in TV e quel che è certo è che il contesto delle vignette era sia alieno come contenuto, sia alieno all’immaginario dei consumatori. Chissà perché, ma un po’ me lo aspettavo sin dall’inizio che quella promessa sarebbe caduta nel vuoto.
Ben presto le vignette delle Saponeaty erano diventate l’esempio con la “e” maiuscola di tutto ciò che sulla terra riesce a non far ridere. Il pubblico si lambiccava il cervello su quelle frasi lapidarie che comparivano fra la schiuma di sapone, accostando incomprensibilmente il concetto di igiene a quello degli invasori extraplanetari (quand’anche venissero interpretati come tali, dato il loro aspetto banale e anonimo), mentre i più ironici si divertivano in esegesi improbabili di quelle criptiche vignette.
Dentro di me il giovane creativo spinto dalla passione e dall’entusiasmo era accovacciato in un angolo a succhiarsi freneticamente il pollice.
All’altro angolo, l’anziano professionista faceva i conti alla calcolatrice del fatturato annuale.
“Vabeh”, disse con una scrollata di spalle, “contenti loro…”