Gioie e dolori di un fumettista di provincia. Delle gioie, chiedete a qualcun altro.
Quando qualcuno mette il suo nome su un fumetto e passa dall’altra parte del bancone nelle file per gli autografi, si potrebbe pensare che diventi una sorta di vip, che vive in un mondo di nuvolette di carta e si mischia solo con personaggi di fantasia o, al più, altri addetti ai lavori. Beh, magari qualcosa del genere accade alle fiere, ma poi c’è la vita reale. E se faccio il fumettista da una quindicina di anni, quando varco la porta di casa, non è che il mio status mi dia particolari gioie. Almeno vivessi in una grande città, potrei godere di quell’anonimato e di quel beneficio del dubbio riservati a chi vedi entrare ed uscire per sempre dalla tua vita nel giro di un isolato. Ma vivo in provincia, ed ecco cosa mi accade…
Creativo.
Uscendo dal mio studio e tuffandomi nella provincialità del piccolo mondo che mi circonda, non c’è granché da andar fiero di farsi etichettare con questo termine. Nella migliore delle ipotesi viene utilizzato come aggettivo (“è creativo”) per chi, anziché prendersi dei pacchetti chiavi in mano per i suoi passatempi, decide di utilizzare il suo pollice opponibile per decorare, imbrattare e plasmare i suoi piccoli oggetti di soddisfazione. Ogni cosa, è ovvio, ha le sue gradazioni: dal corso di découpage in dodici comodi fascicoli al romanziere che, staccato dall’orario sindacale, versa il suo estro in un flusso di pensieri trasposto su Word assieme a una quantità di errori ortografici che farebbe inorridire la Crusca. Addirittura in qualche bar si può sentir parlare di quello che si è fatto pubblicare, ovviamente non gratis ma… dando un contributo in denaro al furbastro (scusate se non ce la faccio a usare il termine “editore”) per compartecipare alle spese di stampa.
Se sei creativo, ricevi continuamente attestazioni di stima del tipo “ah, che invidia: io impiegherei due settimane a fare il disegno che hai fatto tu in cinque minuti” (perché com’è ovvio, se mi deste vent’anni di tempo, vi scriverei anch’io la teoria della relatività che Einstein ha scritto in un pomeriggio alla lavagna, anche se ho il diploma di terza media), salvo poi essere trattato con sufficienza non appena il tuo interlocutore ha smaltito la sua entusiasmatio precox.
Quando il termine diviene addirittura un sostantivo (“è UN creativo”), si rasenta l’indicazione di una patologia. In quell’articolo c’è un concentrato di presa di distanze da chi ha devoluto la sua vita a qualche chimera che le persone perbene hanno il buon senso di evitare. D’altronde una persona adulta e responsabile sa bene che il lavoro è la famosa “punizione biblica” che ti permette di far collimare l’equazione fra tot tempo impiegato e tot denaro entrante per sopperire ai bisogni familiari. Se dunque le tue otto ore giornaliere devono essere destinate (in proprio o, più frequentemente, per conto terzi) a una qualsiasi attività presente nei formulari ufficiali, è lampante notare come gli stessi si preoccupino di assegnare un codice anche ad attività come il procacciatore di affari per acquaplani (46.18.98 nella classificazione Ateco) mentre non riportino niente di simile a “illustratore” o, men che meno, “fumettista”.
Osa dirlo, “fumettista”. Il tuo interlocutore inizia a dissimulare disagio, un po’ come se gli avessi appena rivelato passioni necrofile o una malattia che ti consumerà da qui a massimo una ventina di giorni.
La provincia è la tomba della creatività. Peggio ancora le cittadine satelliti dei principali centri urbani, dato che hanno l’illusione diffusa di contenere un campionario di TUTTO ciò che può esistere nel mondo e quindi non lasciano spazio al beneficio del dubbio sull’esistenza di qualcosa di estraneo.
Uno che abbia avuto l’ardire di intraprendere la carriera dell’illustratore, ma sì… è un “grafico”. Poco contano la conoscenza accademica di prospettiva, anatomia, composizione, teoria dei colori nonché tutto quel bagaglio indefinito che i tuoi occhi hanno catturato negli anni e hanno accumulato. Tu sei né più né meno che il tizio che scrive “Sagra della Trippa” in Comic Sans su un manifesto a tre colori e passa il resto della giornata a ricalcare alla meglio i loghi degli enti patrocinanti.
Fumettista? Ah sì: anche il figlio della Mariagrazia adora fare fumetti. E meglio non approfondire, ché si potrebbe scoprire che il figlio della Mariagrazia ha sette anni, con buona pace del proprio ego.
Per non parlare di quando vai sul tecnico. E non dico solo di parlare di sceneggiatura a qualcuno che la scambia per la scenografia, sciorinare termini come set-up, pay-off, breakdown o layout, oppure citare qualche Maestro di riferimento, ma anche di toccare quei temi che, in qualche modo hanno avuto i loro bei motivi di entrare nell’immaginario collettivo.
“Diritti”, ad esempio. Com’è che si fa tanto parlare delle emittenti televisive che si litigano e si spartiscono puntualmente quelli delle partite di calcio e poi, quando c’è da affrontare un discorso serio sul copyright, si materializza nella mente dell’interlocutore la scimmietta coi piatti di simpsoniana memoria?
Metti che la tua illustrazione sia stata carpita da qualcuno che ne ha fatto un utilizzo commerciale senza riconoscertene la paternità o, tanto meno, un compenso? Ah beh, se pretendi che ti paghino per un disegnino, magari sei tu il venale che cerca di approfittarsene. Ma sì, non c’è il nome, però intanto il tuo disegno è stato apprezzato. Non ti hanno neppure chiesto il consenso? Oh, che bricconcelli.
Beninteso: magari tutto questo resta nel sottotesto, mentre formalmente ti vengono rilasciate attestazioni di comprensione, indignazione e stima. Ma come una barca alla deriva, segue l’inesorabile ridimensionamento “e vabbè, non si fa ma… alla fine ti hanno fatto pubblicità… non ti hanno poi tolto niente… andrà meglio la prossima volta…” e compagnia bella.
E intanto si va al cinema a vedere l’ultimo blockbuster della Pixar, si compra al figlio lo zaino dei Gormiti, si mangia l’Happy Meal brandizzato coi Minions, tradendo un’inconfessabile dipendenza dall’icona visiva seppur non chiedendosi se camminano fra noi le persone dietro le quinte che a detta icona hanno dato immagine e vita.
Ohibò, alla fine la sua coerenza c’è, se si pensa che magari il blockbuster della Pixar ce lo scarichiamo col torrent, che lo zaino dei Gormiti ci va bene anche taroccato alla bancarella del mercatino o se l’effigie dei Minions è stata scaricata da internet e stampata sulle tovagliette di carta della pizzeria Da Nino.
In altre parole, senza cibo e aria si muore, ma solo per il primo siamo disposti a pagare. Questo perché nessuno è in grado di appropriarsi dell’aria e somministrarcela a pagamento. Analogamente, per il paio di scarpe ci metto volentieri anche un centone, ma per l’immagine delle Winx, che attrae le nostre figlie così come la luce fluorescente fa con le falene, siamo già più restii a mettere le mani in tasca, dato che con Google Images basta allungare (virtualmente) la mano e ne arrivano a grappoli.
Eppure non è neanche l’intangibilità del nostro output che renda a sua volta intangibile una certa professione. Dal medico specialista partono fettone di stipendio per cinque minuti di colloquio, dall’avvocato ancor di più, sorvolando su tutti quei servizi di conforto psicologico travestiti da qualcos’altro che ci prosciugano le finanze.
Ma sai, senza lo specialista ne va della mia salute, senza l’avvocato ne va della mia situazione civile o patrimoniale e senza le altre cose, magari perdo addirittura l’anima immortale.
Un disegnino, invece, lo sa fare anche il figlio della Mariagrazia.
Morale della favola: viviamo in una società ingorda di intrattenimento. Qualcuno ha la fortuna di avere un nome che lo precede e magari, alla fin fine, riesce a godere del suo merito.
Ma c’è un’intera industria di persone che, quando vanno a far spesa, vedono un’immagine da loro realizzata su un intero scaffale di prodotti, quando vanno dal giornalaio vedono una loro copertina sorridergli dallo scaffale, quando accendono la TV ecco comparire una loro creatura.
E poi, al pranzo coi parenti, negli spogliatoi di una palestra o la sera al bar, si accorgono di essere “UN creativo”.
Non c’è niente da fare: è ben difficile accorgersi dell’importanza di chi contribuisce al tuo divertimento con le sue mani. Eppure vengono stesi i tappeti rossi per chi lo fa… coi piedi. Campionato dopo campionato.