1964: l’anno in cui Sergio Leone rivoluzionò il cinema con Per un Pugno di dollari ed entrò nella leggenda
Riflessi ramati di un sole impavido animano filamenti d’erba spenta. Un silenzio tagliente accompagna lo spazio sconfinato della prateria. In un istante quell’ambiente lunare perde la sua stasi. I binari di una ferrovia diretti verso uno sfondo acquerellato si animano. Il vuoto si riempie con un sussulto. Lo sferragliare del treno è un rumore di ferro e paura. Dense nuvole di fumo color oblio macchiano un cielo puro. Lo sconfinato paesaggio sonoro si restringe, circoscritto da rumori secchi e mortiferi. Colpi di pistola e scalpitii di cavalli irrequieti. L’istante che separa la sorpresa dalla reazione è troppo sottile. L’allarme dato dal macchinista è soltanto l’incipit di una carneficina. A chilometri di distanza un paese abbandonato dall’uomo e dal destino accoglie un’altra morte, in un saloon che profuma di whisky e sangue. In una danza macabra tra vita e vendetta. Benvenuti nel Far West.
Se per decenni queste vibrazioni narrative e il genere western tout court sono stati appannaggio degli americani, negli anni sessanta si innesca una rivoluzione cinematografica tutta made in Italy, la cui potenza culturale ha presto coinvolto il resto del mondo.
Il merito di questo atto rivoluzionario nella settima arte va dato ad uno degli esponenti più illustri del cinema italiano e mondiale del novecento: Sergio Leone.
Se inizialmente l’Italia aveva risposto allo strapotere a stelle e strisce con un approccio parodistico e scanzonato, Sergio Leone ha avuto l’illuminazione artistica di reinterpretare un genere, destrutturandolo e riconducendolo verso lidi ideologici e culturali più affini. Compiendo una rivoluzione e diventando Storia.
Ma in cosa consiste questo stravolgimento e superamento della classicità statunitense? Cosa ha davvero apportato Sergio Leone, in grado di rompere schemi e diventare il vessillifero di un nuovo modo di fare e fruire il cinema? Per capirlo bisogna tornare indietro. Negli anni sessanta.
Come nasce la rivoluzione di Sergio Leone
Sergio Leone respira cinema sin dalla nascita. Il padre è Vincenzo Leone, nome d’arte di Roberto Roberti, uno dei principali esponenti del cinema muto italiano. La madre invece è Bice Waleran, all’anagrafe Valcarenghi, attrice di origini austriache. L’infanzia vissuta tra Trastevere e Cinecittà è costantemente illuminata dalla fulgida stella della settima arte. Tra i suoi migliori amici e compagni di classe, sin dalle elementari, c’è un bambino con la passione per la musica. Il suo nome è Ennio Morricone.
Dopo aver debuttato con il genere peplum, Sergio Leone sente la necessità di approcciare diversamente il cinema, con tematiche e modus operandi che andassero oltre i rigidi meccanismi registici del tempo. È il 1963 e di lì a poco il mondo cinematografico sarebbe cambiato per sempre.
In un tiepido autunno romano Enzo Barboni, allora direttore della fotografia (in futuro sarà regista con il nome di E.B. Clucher) va al cinema Arlecchino con il collega Stelvio Massi a vedere La sfida del samurai, pellicola di Akira Kurosawa.
Dopo il cinema Barboni ha un appuntamento al Caffè Rosati con Sergio Leone. Seduti ai tavolini dello storico bar di Piazza del Popolo i due iniziano a dialogare in maniera fitta.
Argomento della discussione ovviamente il cinema. Barboni parla in maniera entusiasta della pellicola che ha appena visto. La storia del samurai senza padrone Toshiro Mifune,che offriva i suoi servigi a due fazioni rivali, ha stregato il direttore della fotografia. Il suo amico regista deve assolutamente vedere quel film, perché è molto affine alla sua poetica cinematografica, ma non solo.
Barboni sente che da quel film Leone avrebbe trovato la scintilla e le idee giuste per dar vita a quel progetto che sino a quel momento covava solo in potenza. Sergio Leone va immediatamente al cinema, in compagnia di Carla Ranaldi. Barboni aveva ragione: quella visione fu epifanica.
Uscito dalla sala Sergio Leone corre a casa e pensa a come indirizzare tutte quelle vibrazioni positive. Rimugina sul film, riduce a brandelli pacchetti di sigarette, in piena estasi creativa e ha l’illuminazione. La sfida del samurai era tratto da un romanzo americano, Piombo e sangue di Dashiell Hammett, e per Leone il ritorno alle origini dell’opera è d’obbligo. Bisogna spogliare la pellicola degli orpelli orientali e farla tornare nuovamente nel suolo americano. I samurai devono tornare americani. Devono diventare cowboy.
L’epica si sporca di polvere
Nel viaggio di traslazione culturale tra Oriente e Occidente, artisticamente riprodotto da Sergio Leone, subentra il genere cinematografico che più rappresentava la forma mentis a stelle e strisce: il western.
Tuttavia il regista romano, che pur nelle corde ha la prospettiva filmica statunitense, non vuole emulare con un rigoroso approccio neoclassico gli stilemi e strutture narrative originali.
Dietro a ogni opera c’è un background sociale e culturale. La distanza tra rappresentazione e autore deve essere minima, altrimenti si perde la componente del realismo e la finzione copre la messa in scena. Il racconto si snaturerebbe e si avvertirebbe costantemente la sensazione dell’artificio senz’anima.
Sergio Leone trova nel suo personale bagaglio personale e culturale i semi che avrebbero dato via ad un genere che non emula, ma reinterpreta.
Il cinema fondativo fordiano era interpretabile come mitologia di massa della nazione americana post bellica. Come l’epica omerica e la chanson de gestes medievale fu fondamentale per porre i primi tasselli identitari delle nazioni europee, il western era un mezzo per costruire e solidificare la visione del mondo di un popolo ancora smarrito. L’idealizzazione e mitizzazione di alcune figure derivavano dalla necessità di personificare concetti e capisaldi mutuati dalla realtà socioculturale americana. Il western a stelle e strisce è il riflesso del sogno di un’America che sta crescendo e che deve seguire un percorso ben definito.
Sergio Leone non è un americano e il suo percorso di vita non è stato bagnato da anni di indottrinamento e identificazione nei valori della società americana. Il suo western non poteva e doveva ricalcare i movimenti etici e morali che animavano le pellicole dei suoi predecessori statunitensi.
Serviva un processo di distillazione cinematografica: partire da un’idea di base e reinserirla in una nuova architettura che si distanziasse dal progenitore.
Il western di Sergio Leone si allontana dall’epos e si avvicina alla terra e all’uomo. L’exemplum virtutis del racconto americano si prosciuga e conosce la durezza della quotidianità e di un mondo in cui anche il senso del dovere dell’uomo più integerrimo diventa sacrificabile dinanzi ad un raptus egoistico.
Laddove c’erano valori morali certi a cui rivolgersi in un salvifico ritorno alle origini, nel western di Sergio Leone la solitudine diventa l’unica certezza.
L’eroe si risveglia uomo
Nello stravolgimento narrativo e ideologico plasmato da Sergio Leone chi subisce maggiori trasformazioni è il protagonista dell’epopea western. Come in un percorso di specchi deformanti, l’immagine dell’eroe perde le sue originali fattezze fordiane, i suoi connotati epici idealizzati e si riscopre umano, tornando al livello più basso della scala terrestre. Quel terreno in cui ci si sporca. Di polvere e sangue.
Il dualismo esasperato americano viene infranto. La dicotomia tra bene e male viene sfumata, Sergio Leone rimescola le tonalità dei suoi personaggi, che non hanno paura e remore morali a passare repentinamente dal bianco al nero. Bene o male sono due categorie ormai smarrite nelle lande desolate; i colori dei personaggi e dei luoghi non sono mai distinti, ma ambigui, impolverati da uno strato che ne rende impossibile individuare i tratti, fisici ed emotivi. Il far west non è poi così lontano, rispecchia la vita di tutti i giorni, in cui è impossibile mantenere una condotta lineare e non macchiata da brusche pennellate individualiste.
Sergio Leone non ci mostra più eroi, ma semplici esseri umani che convivono con i loro vizi e non si sentono in colpa. La virtù è utopica e appartiene a idealizzazioni del passato, ad un cinema che vuole educare e far sognare. Qui invece l’occhio è vigile sulla bruta e quasi ferina realtà, in cui vivere equivale a sopravvivere. Tra la polvere si muovono protagonisti in balia del caso e di un destino ineludibile che preannuncia e minaccia costantemente una fine imminente. Si percepisce l’ineluttabilità della morte, che però non fa più paura e viene affrontata con ironia e irriverenza.
La gloria del mito greco e del western classico svanisce in un vortice di brutale nichilismo, in cui l’eroe non ha più bisogno di leggende ed echi. Il cowboy perde anche il nome perché non ha più bisogno di epigoni e del ricordo eterno della storia. Il passato è uno sfondo sfumato e perde di valore dinanzi ad un presente a cui prestare interamente le attenzioni. Perché l’uomo non è più eroico e il suo sguardo è rivolto alla terra e non al cielo.
Uno stile eterno
L’eternità del cinema di Sergio Leone si percepisce in ogni sequenza delle sue pellicole. La sua rivoluzione è una luce abbagliante, che irradia tematiche e stili.
L’uso incessante di dialoghi fulminei, l’alternanza vibrante tra primi piani e campi lunghi, il ritmo sincopato dettato da attimi di stasi travolti da un’azione impetuosa.
Si denota un’intelligenza e una perfezione visiva inusuale per l’epoca e per il genere. Proprio per questo il cinema contemporaneo ha sempre attinto e omaggiato il modo sontuoso di girare improntato da Sergio Leone e il coraggio registico di ribaltare e reinventare un genere, sporcando un’epicità che sembrava immortale.
Il dettaglio e il primo piano hanno una potenza comunicativa che va al di là della parola. L’iper-semiotizzazione dello sguardo è il modo di riflettere l’individualismo esasperato degli antieroi, ribadendo un netto stacco dalla visione subliminale classica, in cui l’abuso del campo lungo sottolineava la potenza simbolica del gruppo, della comunità.
Il fondamento morale, perno del cinema americano, viene profondamente minato, e i significanti perdono volutamente la profondità e la proiezione verso l’alto, diventando mezzi per appagare lo sguardo e non più elementi edificanti.
La rivoluzione di Sergio Leone ha aperto le porte ad un nuovo modo di approcciare il western e il cinema. Il suo sguardo era rivolto al presente, ma proiettato al futuro della settima arte. Quel futuro che ha seguito le sue orme nella polvere delle sue opere e lo ha reso una leggenda.