Durante il Comicon 2018 abbiamo avuto il piacere di intervistare Lorenzo De Felici, disegnatore e colorista romano che ha recentemente lavorato al fianco di Kirkman per Oblivion Song, ma già precedentemente noto per i suoi lavori in Bonelli. A dispetto della sua giovane età, De Felici ha preso parte a diversi progetti in varie parti del mondo, tra Italia, Francia e Stati Uniti.
Ecco a voi il resoconto dell’intervista:
Ha debuttato da poco il tuo Oblivion Song, per Saldapress, sceneggiato da Kirkman. Cosa rappresenta per te questo progetto?
Sicuramente rappresenta un punto molto importante per la mia carriera, che probabilmente la definirà almeno per qualche anno a venire. Io ho sempre trovato difficoltà a trovare un posto nel mercato europeo, perché ho la grossa tendenza a uno stile e un approccio al disegno un po’ americaneggiante. Per quanto io abbia cercato di spaziare tra l’umoristico e il realistico quella matrice è sempre rimasta molto forte, e quindi ho lavorato spesso come colorista perché non riuscivo a trovare lavoro come disegnatore. Anzi, negli ultimi anni, mentre facevo il colorista per Orfani, stavo cominciando a pensare che era tanto tempo che non riuscivo a ingranare in qualche modo col disegno, e mi ero quasi arreso all’idea di essere colorista per sempre. Senza nessun tipo di dispiacere, è un lavoro che mi piace tantissimo e lo avrei fatto molto volentieri. Però poi sono iniziate ad arrivare le prime grandi occasioni, come il Dylan Dog, il lavoro che ho fatto con Rue De Sevres per Infinity 8 e poi l’email di Robert… Che quando è arrivata mi ha fatto sentire a cavallo fra due momenti della mia carriera.
Si sente un po’ l’ansia da prestazione all’idea di lavorare col padre di The Walking Dead?
Ovviamente sì, più che altro perché sono stato sempre un suo grande fan, quindi lavorare al fianco di uno sceneggiatore così bravo e che va così incontro ai miei gusti era già di per sé una cosa che mi emozionava tantissimo. E poi sentirsi sotto l’occhio di così tante persone per la prima volta è la maggior fonte di ansia, più che lavorare con Robert, il quale è sempre stato molto gentile ed è un tipo che ti mette a tuo agio, il che mi ha reso tutto molto più facile. L’ansia da prestazione c’è piuttosto con il pubblico, però io ho sempre lavorato cercando di dare il massimo di quello che potevo dare. Possiamo quindi dire che l’ansia c’è, ma non è quella un po’ colpevole del “chissà se se la bevono”, piuttosto quella del tipo “ho dato il meglio che potevo, se adesso piace sono contento sennò mi troverò un altro lavoro”.
Per uno sceneggiatore il fatto che la propria serie venga opzionata per il cinema o per la televisione è fonte di grande soddisfazione. È un obiettivo agognato anche dai disegnatori?
Dipende. Ovviamente penso che a tutti farebbe piacere, o quasi a tutti, forse solo Alan Moore è contrario a questa cosa, però a parte gli scherzi è una bella soddisfazione. Più che altro perché un disegnatore o uno sceneggiatore vogliono raccontare una storia e vogliono arrivare a più persone possibili. Se la storia viene trasferita in un medium che arriva ancora a più persone sono solamente più felici. Poi lì subentrano discorsi più pratici, contrattuali, e bisogna vedere perché non sempre un disegnatore ha un ritorno da una trasposizione in un altro medium. Io sarei super contento se la cosa si muovesse in quella direzione. Se Oblivion Song venisse opzionato. Sarei molto felice anche perché sono un avido consumatore di cinema e di serie televisive e quindi si unirebbe ad un’altra passione che ho.
Poi è una cosa bellissima vedere il proprio lavoro trasposto…
Beh sì, quando è fatto bene (ride n.d.R.).
Si dice che Kirkman ti abbia notato e contattato sui social network. È vero? Cosa rappresenta per gli artisti la piattaforma di internet? Sono più i rischi o le opportunità che ne derivano?
Assolutamente più le opportunità. Non c’è il minimo dubbio. Kirkman mi ha trovato su DeviantArt, che è una piattaforma dove un sacco di disegnatori, per la maggior parte amatoriali, postano cose loro. È un sito che è costituito per il 90% da immagini di mini pony fatte male e proprio per questo motivo avevo quasi deciso di togliermi. Era una cosa che avevo aperto un sacco di tempo fa e, essendo una piattaforma internazionale, ci avevo messo tutti i miei disegni e le mie vignette, sempre traducendo tutto in inglese perché miravo ad espandere il mio range. E caso ha voluto che proprio questa mia iniziale e vaga intenzione si sia avverata, perché da lì Robert, tramite Cory Walker, ha cominciato a seguirmi, a seguire i miei lavori per anni, finché si è deciso a farsi avanti ed è partita la cosa.
Il web ha totalmente cambiato una parte di questa professione. Quando ho iniziato a far vedere i miei primi lavori già c’erano i blog dove un sacco di artisti mettevano le proprie cose, e si cominciava a creare questa catena di persone e di artisti che si mettevano i link a vicenda. Mi ricordo che c’era un sito che ti faceva vedere da dove arrivavano le visite al tuo blog, e io lì mettevo i miei lavori e notavo con grande stupore che erano visualizzati in Cina, Russia, America. Vedere che persone arrivavano ai miei lavori senza che io avessi mai portato lì niente era davvero incredibile. Diciamo che lo stesso fatto che Kirkman mi abbia contattato perché ha visto il mio Deviantart è la prova definitiva che è indispensabile farsi avanti nel mondo dei social. Non per forza in maniera prepotente o autocompiacente. Bisogna esserci e starci anche in modo abbastanza costante, per dimostrare che non si è uno che lavora occasionalmente, che fa un disegnino ogni tanto. Una volta si diceva che per farsi conoscere fosse necessario andare alle fiere: questa cosa oggi non esiste più. Oggi si crea una rete virtuale di persone e di persone che suggeriscono ad altre persone, ma è tutto soltanto sul web, quindi è assolutamente fondamentale esserci, secondo me.
Italia, USA, Francia: hai lavorato con tante realtà produttive diverse. Quali sono le principali differenze, i pro e i contro, e cosa, secondo te, possono imparare l’una dall’altra?
Le differenze sono fondamentalmente nel tipo di pubblico. In Italia c’è un pubblico abbastanza diviso fra lettori di fumetti nostrani, i lettori di fumetti americani e i lettori di fumetti giapponesi. Sono tre realtà a volte impermeabili. Non sempre, per fortuna. Però in generale c’è sempre, e forse negli ultimi anni sta leggermente migliorando, una concezione e una cultura del fumetto italiano, che si è sviluppato soprattutto con la Bonelli. E all’interno di questo tipo di contesto la figura del disegnatore, dell’autore e dello sceneggiatore, è spesso marginale. Al centro c’è il fumetto e il personaggio. La professione del disegnatore e del fumettista viene ancora vista in maniera un po’ equivoca e ingenua. Per quanto riguarda la Francia, invece, è tutto un altro discorso perché lì il fumetto ha un ruolo differente all’interno della società, un altro rilievo culturale. Lì fa parte della cultura, dell’espressione artistica al pari della letteratura. Viene vista come una cosa nobile e non per forza super popolare, e come autore vieni trattato con mille riguardi. Intendo dal pubblico, naturalmente. Anche il pubblico è molto più variegato rispetto a qui dove il range è più o meno lo stesso. Ci sono persone giovani o molti giovani e poi c’è lo zoccolo duro. Spesso un pubblico maschile. In Francia è una cosa completamente trasversale, ed abbraccia qualsiasi tipo di persona, qualsiasi tipo di età, sesso o nazionalità. È una cosa molto bella perché ti fa sentire parte della società e non parte di una nicchia di essa. In America invece non ho ancora avuto tanta esperienza dal punto di vista autoriale. Sono andato a fare la fiera a New York per annunciare Oblivion Song e l’impressione e che ho avuto è che anche lì quello del fumetto sia un aspetto molto legato alla comunicazione popolare, ovvero i fumetti non sono per forza un’espressione altissima di arte. Sono sicuramente una cosa seguita e amata molto dal pubblico e dal punto di vista commerciale, e soprattutto con i film usciti negli ultimi anni è una realtà che diviene sempre più importante. Però, nello stesso tempo, non è proprio considerata come un qualcosa di elitario. Cosa potrebbero imparare? Non lo so, perché in realtà direi che sono mercati così diversi che è difficile capire cosa funzionerebbe e dove. Direi che quello americano potrebbe imparare da quello europeo a svincolarsi dalla serialità opprimente che sta portando alla schizofrenia le grandi major del fumetto, però in un certo senso quello che dovevano imparare dal nostro mercato lo hanno già appreso.
Oltre ai progetti in lavorazione, quali sono quelli futuri? Ci vuoi annunciare qualcosa?
In realtà non c’è molto, sto lavorando ventiquattro ore su ventiquattro su Oblivion Song. Ci sono dei miei progetti che vorrei portare avanti, perché erano già stati approvati e che ho messo in pausa quando ha chiamato Robert e questo un po’ mi è dispiaciuto. Ma ho dato la priorità a Robert per ovvi motivi: l’occasione era troppo allettante. Per il resto non ho grandi scoop.