Diabolik dei Manetti Bros è ora presente anche su Sky e Now TV, ma continua ad essere un film in grado di suscitare pareri molto contrastanti, sia da parte del pubblico che della critica
iabolik dei Manetti Bros è arrivato a maggio su Sky e Now TV. Ma possiamo davvero definirla una buona notizia?
È interessante notare infatti come il film sia probabilmente uno dei prodotti italiani più controversi degli ultimi anni, dividendosi perfettamente tra pareri molto positivi e molto negativi, sia per quanto riguarda la critica che il pubblico. A fronte di ottime recensioni ce ne sono infatti diverse altre che affossano Diabolik, ed anche sulla pagina ufficiale del film troviamo molti commenti contrastanti da parte dell’utenza e quindi degli spettatori.
Chiarisco subito che l’aver letto o meno Diabolik in questo caso risulta, nei fatti, quasi ininfluente (come sempre, tra l’altro, ma qui entriamo su una questione più complessa), e premetto ulteriormente che, seppur non possa certo reputarmi un fan o un esperto del personaggio creato da Angela Giussani, parecchi anni fa qualche albo l’ho letto, se non altro per via della mia non più giovanissima età.
A tal proposito, va considerato come siano molti i commenti del pubblico affezionato al fumetto, altrettanto divisi tra chi ha difeso una particolare aderenza e chi invece non l’ha vista affatto. O peggio ancora chi l’ha percepita ma in modo eccessivamente fedele e – quindi – “sbagliato”.
Anche nella nostra sezione cinema la redazione è piuttosto scissa. Discutevamo tempo fa del film, e ad esempio Alessio Zuccari constatava come, a suo avviso, se dei registi ritengono che fedeltà al fumetto significhi automaticamente trasporre in modo esatto delle tavole, fregandosene di quel piccolo dettaglio che è il cambio da un medium statico a uno cinetico, allora siamo di fronte a un bel problema.
A me infatti, a dirla tutta e chiaramente estremizzando un po’, Diabolik dei Manetti è sembrato la rappresentazione cinematografica di un fotoromanzo.
Si tratta ovviamente di un esperimento audace, nella teoria apprezzabile in un panorama italiano rigido e assai poco innovatore, ma nei fatti assolutamente inefficace.
L’ambientazione cerca di ammiccare al fumetto, giocando con uno spazio-tempo indefinito che strizza tuttavia l’occhio ad un’Italia anni ’60-‘70, pur collocandosi nella immaginaria città francese di Clerville, e se questo è forse l’aspetto più affascinante, facciamo fatica a dire lo stesso delle bislacche riproposizioni di scene del fumetto, come le maschere di Diabolik o i suoi mille marchingegni che ci distaccano totalmente da un medium come quello cinematografico catapultandoci in una dimensione di mezzo che non rende giustizia né al cinema né al fumetto.
Anche la scelta della recitazione, a cui facevo riferimento quando in modo smaccato accennavo al fotoromanzo, è spiazzante seppur – nuovamente – ambiziosa. Ci troviamo infatti al cospetto di dialoghi estranianti, che spesso sembrano quasi non aggiungere nulla a ciò che accade sullo schermo, dando vita a una struttura che non pare adatta a ogni tipologia di spettatore. È ovvio che non è quello che vogliono i Manetti, ma non possiamo considerarlo un aspetto positivo, dal momento che troppe volte si tende a dimenticare che il cinema – soprattutto questo – dovrebbe essere per tutti.
Il compito più difficile è toccato al protagonista Luca Marinelli, che spesso abbiamo visto in ruoli briosi in cui poter scatenare l’emotività, mentre qui deve portare sulla scena un Diabolik inespressivo, glaciale, che risulta però – e non per colpa dell’attore – piatto e scialbo, distante dalla fredda ma carismatica controparte fumettistica, e soprattutto – seppur non abbia molto senso confrontarli in toto – da quello di John Phillip Law nel film di Mario Bava del ’68. Anche il lavoro fatto sul personaggio di Eva Kant, interpretata da Miriam Leone, non è del tutto comprensibile. I Manetti scelgono una versione meno erotica di quella originale – e, ancora una volta, di quella della ammaliante Marisa Mell – pur affidandosi ad un’attrice tanto brava quanto incantevole e sensuale.
Chi forse riesce di più a calarsi in questa strana atmosfera è l’ispettore Ginko dell’ottimo Valerio Mastandrea, che sa come non sembrare mai ridicolo in un clima tanto surreale.
Quello che invece è di gran lunga apprezzabile riguarda il trucco, i costumi assolutamente fedeli con un’ambientazione di questo tipo e collocata idealmente negli anni sessanta o settanta, oltre che una fotografia impeccabile. Ma soprattutto un plauso va fatto alle musiche di Pivio e Aldo De Scalzi, davvero eccezionali e in grado di portarci in contesto extraspaziale ed extratemporale, ma perfettamente funzionale.
Resta senza dubbio il mirabile tentativo di aver provato a realizzare un prodotto nuovo, distante dalla routine e dagli standard italiani, ma ancora una volta siamo purtroppo lontani da un esperimento perfettamente riuscito, e credo la forte controversia che Diabolik ha scatenato ne sia la conferma.
L’idea di puntare sulla storia dell’arresto di Diabolik (terzo albo della prima serie), con un racconto che sancisce le origini di Eva Kant, è stata brillante e restituisce peraltro ai fratelli Manetti la possibilità di eventuali sequel. Ma anche questa, è davvero una buona notizia?