Con Crimes of the Future, David Cronenberg torna a ragionare sul corpo e le sue derive, ma stavolta che fatica stargli dietro!
avid Cronenberg fantasticava di contest per il miglior organo e bellezza – letteralmente – interiore già ai tempi di Inseparabili. Preso dai suoi deliri, uno dei due gemelli Mantle, interpretati entrambi da Jeremy Irons, sognava in preda all’eccitazione alla sola idea di un futuro dove la nuova arte sarebbe stata quella covata all’interno del corpo, sospinta da un processo evolutivo più o meno indotto.
Sono passati più di tre decadi e il padre del body horror arriva infine a mettere in scena questa postulazione con l’atteso Crimes of the Future, a otto anni da Maps to the Stars e con un film che non ha niente a che vedere con il pur omonimo lavoro, sempre di Cronenberg, del 1970. Ma questo approdare nei lidi di un futuro immaginato ingrigito e anestetizzato dal superamento della percezione del dolore da parte dell’uomo è un arroccamento del leggendario autore sui suoi temi cari eppure rimasticati, una visione che ci vede corto e in parte a buon mercato.
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La malattia che pare affliggere sin nelle ossa questo Crimes of the Future è una scrittura che ha paura tremenda del suo portato, che si affida alla necessità dell’enunciazione a ogni costo, che vessa il film alle fondamenta e soprattutto vessa di continuo chi guarda e in Cronenberg vorrebbe percepire, immaginare, argomentare, non ascoltare fino allo sfinimento.
Enuncia chi e cosa fa Saul Tenser (Viggo Mortensen), performer che assieme alla sua collaboratrice-amante Caprice (Léa Seydoux in formaldeide) crea opere d’arte a partire dall’incontrollata crescita di nuovi organi dentro al suo corpo. Enuncia dalle parole di una insopportabile e troppo a briglia sciolta Kristen Stewart (perlomeno con una parte ridottissima) che la chirurgia è il nuovo sesso, per poi ribadirlo ancora e ancora senza che sia mai quello messo su schermo a impattare con la forza di un amplesso o un amplesso mancato (ce lo ricordiamo Crash?).
Enuncia pure, con dovizia di particolari per non correre il rischio di perdersi tra gli esili snodi della corda da thriller-noir che tiene assieme le parti, come e cosa sono le epifanie di una “nuova carne”, un figlio che consuma e digerisce plastica, che nasce e si sviluppa di sua spontanea volontà nel mezzo delle incupite fantasticherie di un mondo derelitto e artificiale. Un atteggiamento spiccatamente on the nose che fa da argine alle speculazioni intellettuali, magari anche stimolanti, che Cronenberg mette sul banco operatorio, che ricaccia indietro il potenziale fascino di un’opera che mal concilia le aspirazioni alla mancanza di fiducia che in queste pare avere.
Perché l’alternativa è che non abbia fiducia in chi sta dall’altra parte, che al picco di un nero messo su bianco sottolinea a caratteri cubitali che “body is reality”, che sono il corpo, la sua malleabilità, la sua spiccata e perché no affascinante indipendenza evolutiva a essere l’oggetto di un’indagine mai come ora così stancamente appesa tra letti semisenzienti e pad di controllo organici mutuati già da eXistenZ.
Un sincretismo tra biologico e artificiale, quello offerto da Cronenberg, che si fa prima a parole e quasi mai nei fatti, che si scontra con una povertà figurativa che cela dietro un essenziale tutt’altro che evocativo (si è girato ad Atene) un inevitabile cul-de-sac. Ci si può raccontare quanto si vuole che la freddezza di un film più respingente che repulsivo sia atto espressivo, ma a guardare i possibili punti di fuga di Crimes of the Future latita l’orizzonte di un reale sguardo alle derive del domani.
Si sciupa, pure abbastanza pigramente, tra una retro-tecnologia che odora di stantio e non di vintage, che il suo tempo sullo schermo l’ha già fatto anche per uno come Cronenberg, mentre si accosta in punta di piedi a un ecologismo che mettere in ballo come fa il film è operazione troppo facile e troppo comoda.
Ecco, se Saul Tenser stesso si lamenta a un certo punto del puro formalismo di un altro performer ricoperto di orecchie su tutto il corpo che eppure sono accessori solo estetici non funzionanti, un po’ questo è l’atteggiamento in tutta franchezza auto-esaustivo di Crimes of the Future. Forma, tratto, postulato e poca esigenza d’esistere.
Insomma, se l’autore di Toronto rinnova il sodalizio tra il suo genio e la fascinazione che lo tiene legato a doppia mandata all’interesse per la cosa umana, quella tangibile, di carne ossa e sangue, stavolta la creatura che ne esce fuori ha le stesse sembianze degli organi abortiti da Saul, recisi e messi in mostra prima che sappiano trovare la via per una completa e compiuta funzione. Noi ci diciamo: «Forse la prossima volta».