In occasione dell’uscita della terza Stagione di Dear White People su Netflix, qualche esempio di come la cultura afro è stata raccontata tra cinema e Tv

Dal 2 agosto la piattaforma di streaming più popolare al mondo, Netflix, ha pubblicato la terza stagione di Dear White People. Lo show, inaugurato due anni fa, racconta lo stato dell’arte della lotta pacifica per la difesa della dignità della cultura afro in America, attraverso gli occhi e la voce di alcuni studenti della Winchester University.

Sam (Logan Browning), Troy (Brandon P. Bell), Coco (Antoinette Robertson), Gabe (DeRon Horton) e gli altri studenti, divisi tra lotte sociali e tribolazioni personali, sono gli ultimi esponenti di una lunga serie di personaggi creati per rappresentare il pubblico afroamericano in una industry, come quella cinematografica, troppo a lungo dominata dai bianchi. Ripercorriamo insieme qualche esempio storico, ma anche le più interessanti novità in questo campo.

Perché nasce la Blaxploitation?

Ricordate quando nel teatro shakespeariano era vietato alle donne recitare su un palco e le figure femminili scritte (per esempio) dal Bardo erano interpretate da adolescenti o uomini dai tratti sottili e delicati?

Ecco, l’effetto, che oggi troveremmo ridicolo e gratuitamente escludente, era più o meno quello che si può riscontrare nel film Nascita di una nazione di David Wark Griffith, uscito in America nel 1915.  Il film, oltre ad essere un’apologia della segregazione razziale e a esaltare il Ku Kux Klan come benefattore degli Stati Uniti, non aveva attori di colore all’interno del cast. I personaggi afroamericani erano interpretati da uomini bianchi con le facce dipinte. Un po’ come il party di Halloween che i protagonisti di Dear White People condannano all’inizio della prima stagione.

cultura afro tv

Chiaramente Nascita di una nazione altro non era che uno specchio dei tempi – di tutti i tempi: nel 1998 è stato dichiarato dall’American Film Institute 44esimo tra i cento film americani migliori di sempre -ma ebbe anche il merito di evidenziare la tendenza fortemente conservatrice del cinema del tempo e le sue derive violente.

Dipingendo i neri come stupratori e criminali, il film provocò la reazione di alcuni registi afroamericani indipendenti che girarono in risposta il film The Birth of a Race (1919) in cui, invece, la comunità nera veniva rappresentata con connotati decisamente meno infamanti. Ovviamente la reazione della critica bianca non fu affatto positiva.

Sì, ma di che parliamo?

Bianchi e neri. Comunità afroamericana e comunità caucasica. Molti si chiedono se sia ancora necessario fare queste distinzioni e ritengono la promozione della cultura afro al cinema e in TV ormai acqua passata. Certo, tutti auspicheremmo un mondo in cui la differenza di pelle non costituisca una differenza sociale, ma – la Storia che lo mostra – questo tempo è ancora lontano.

Erano gli anni Settanta, e – in particolare – gli anni tra il 1971 e il 1976 – quando nelle sale Grindhouse si inizia a diffondere un nuovo genere, fatto da neri (quasi sempre) con attori neri, per un pubblico nero. Parliamo della Blaxploitation, inaugurata con l’uscita in sala di Sweet Sweetback’s Baadasssss Song, in cui il protagonista (Sweetback, interpretato da Melvin Van Peebles, che firma anche la regia) è braccato per tutto il tempo da cani e poliziotti, riuscendo infine a salvarsi. 

Droga, prostituzione e vita del ghetto sono alla base di questo genere di film che, non a caso, si inserisce nel filone più ampio dell’Exploitation – ovvero quei film di serie B in cui trama e interpretazione sono puramente accessori per mettere in scena situazioni-limite, in grado di attirare un pubblico popolare. Il successo di Sweetback’s Baadasssss Song parlò subito chiaro: costato circa 15mila dollari, ne incassò 15.180.000 – anche grazie al supporto attivo delle Black Panthers che consigliarono la visione a tutta la comunità afro. 

Il trionfo della Blaxploitation

Nonostante il picco del fenomeno sia durato pochi anni, ci fu tutto il tempo di mettere in pista diversi film diventati piccoli cult per le generazioni a venire.  Tra questi possiamo ricordare Shaft il detective del 1971 e Foxy Brown del 1974. In particolare, il secondo introduce un nuovo elemento nel genere: quello delle eroine al femminile che uniscono il sex appeal proprio della comunità afro con un profondo senso di giustizia impartito a suon di calci nel culo. Il personaggio sarà poi omaggiato negli anni Novanta da Quentin Tarantino nel suo Jackie Brown, per il quale scrittura la stessa attrice: Pam Grier.

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L’elaborazione successiva della comunità nera su questo genere cinematografico, è trattata anche in Dear White People in maniera piuttosto critica: nella loro ingenuità, i film dell Blaxploitation hanno perpetuato nell’immaginario collettivo lo stereotipo del nero violento e immerso in dinamiche sociali ai margini della legalità. 

Qual è, allora, un modo politicamente accettabile di parlare della comunità afro nel cinema e nella TV?

La cultura afro nel cinema e nella tv

Uno dei massimi esponenti della celebrazione della cultura afro nel cinema e nella tv di tutti i tempi è Spike Lee. La qualità della sua arte, pur legata sempre ai temi caldi della sua cultura, l’ha portato ad emanciparsi decisamente del “cinema di comunità”, permettendogli di parlare a un pubblico molto più vasto. 

Numerosissimi sono stati i riconoscimenti che lo hanno omaggiato, non ultimo il premio Oscar alla carriera consegnatogli dall’Academy nel 2016. Tra i suoi film più importanti, non possiamo non citare Fa’ la cosa giusta, Lola Darling e quello che è il manifesto del Black Power al cinema: Malcom X. Oltretutto, Spike Lee è un nome ricorrente nei discorsi degli studenti della Winchester University di Dear White People come esempio positivo di rappresentazione della cultura afro. 

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Attualmente la rappresentazione della minoranza nera al cinema è tornata ad essere al centro del dibattito, attraverso lo strumento del black washing. Questa tendenza, che si sforza di affidare sempre più ruoli importanti ad attori e ad attrici afroamericani, è in particolar modo riconosciuta dalla Disney che ha provocato il suo pubblico affidando il ruolo di Ariel nel live action della Sirenetta alla giovanissima popstar Halle Bailey. Inoltre, come sa chi segue la saga MCU, nelle ultime scene di Endgame, il vecchio Capitan America (Christ Evans) ha passato il testimone a Falcon – interpretato dall’attore nero Anthony Mackie. 

I supereroi al tempo di Obama

Non si può negare che la rappresentazione delle minoranze etniche nei prodotti delle grandi major dell’intrattenimento sia legato al contesto politico. Così come Nascita di una nazione era la traduzione in immagini di un’America appena uscita dallo schiavismo, il Nuovo Capitan America è figlio della grande rivoluzione culturale della Presidenza Obama. 

Black Panther

Eppure, prima ancora del nuovo Cap, un altro eroe ha saputo raccontare in maniera più che esemplare la cultura Afro al cinema. L’incasso di $169.4 milioni di Black Panther e la sua candidatura agli Oscar come miglior film raccontano un successo che va al di là della qualità del prodotto – già di per sé assolutamente soddisfacente. Black Panther è la risposta data dal fumetto (e poi dal cinema) all’esigenza della comunità afro di essere rappresentata con i propri valori e le propria dignità. 

Senza calcare la mano sulla violenza, anzi, ma disegnando un leader allo stesso tempo dignitoso e conciliante nei confronti dell’oppressore, Black Panther ha suscitato il più sincero entusiasmo di tutti i fan dei cinecomics e ha insegnato al mondo come il cinema d’intrattenimento (forse un’evoluzione dell’Exploitation?) sia perfettamente in grado di generare una rivoluzione della cultura e del pensiero. 

Se siete interessati ad approfondire la cultura afro da un altro punto di vista, quello del riconoscimento della dignità non solo etnica, ma anche di genere, vi consigliamo la visione di un altro show attualmente in programmazione sul canale FX: Pose, ideato dai creatori di American Horror Story Ryan Murphy e Brad Falchuk racconta le vicende (ispirate a eventi reali) della comunità lgqbti nera di New York tra anni Ottanta e anni Novanta. Un trionfo di bellezza, orgoglio e coraggio che mostra la sofferenza dell’essere giudicati diversi, ma anche la potenza della comunità afro nei momenti più drammatici della sua storia. 

Francesca Torre
Storica dell'arte, giornalista e appassionata di film e fumetti. Si forma come critica tra Bari, Bologna, Parigi e Roma e - soprattutto - al cinema, dove cerca di passare quanto più tempo possibile. Grande sostenitrice della cultura pop, segue con interesse ogni forma d'arte, nella speranza di individuare nuovi capolavori.