Uno dei videogiochi più chiacchierati dell’ultimo anno diventa un bellissimo anime firmato Trigger e prodotto da Netflix
evo essere sincero, pochissimi giorni fa ha debuttato su Netflix l’anime di Cyberpunk Edgerunners, e personalmente l’attendevo moltissimo. E non certo perché sono fan del videogioco a cui si ispira, che anzi non ho nemmeno giocato al momento, ma perché lo studio Trigger che si è occupato della serie è il mio studio di animazione giapponese preferito in assoluto. A questo si va aggiungere che il genere cyberpunk e l’animazione giapponese hanno una lunga lista di sodalizzi a dir poco riusciti e che il director della serie è Hiroyuki Imaishi, lo stesso delle opere Trigger che io ho amato di più, ovvero Kill la Kill, Promare e anche l’ultimo magniloquente lavoro del precedente matrimonio con Gainax, Gurren Lagann. Senza nulla togliere alle altre opere di questi autori, quelle citate sono in assoluto quelle più prorompenti, geniali, impattanti e per me affascinanti sul piano stilistico generale, inteso come la fusione tra narrazione e modalità estetiche con cui questa si racconta.
Al cast di creativi troviamo non solo un sacco di gente che da sempre dà un contributo fondamentale alle opere di Trigger, come Yoh Yoshinari, qui in veste di character designer, ma abbiamo anche un vero talento al comparto musicale, ovvero Akira Yamaoka, famoso soprattutto per il suo lavoro nel mondo dei videogiochi, tra cui ricordiamo la serie SIlent Hill ma anche tutte le opere di Suda51 stralunate ed eccentriche e in linea quindi con il mood trigger, come Lollipop Chainsaw, Shadow of Damned o Killer is dead. Sulla carta quindi chi vi parla sbavava da tutte le parti all’idea di gustarsi questo Cyberpunk: Edgerunners. Adesso però siamo qui perché l’abbiamo visto ed è il momento di tirare le somme. Vogliamo tagliare la testa al toro senza troppe chiacchiere? Se amate gli anime guardatelo e basta, come volevasi dimostrare questa serie è una ficata pazzesca sotto tutti i punti di vista, se avete buon gusto si intende…
Tecnicamente è come sempre roba fuori di testa. Trigger compie le sue solite magie per farci lacrimare dalla gioia davanti al televisore: un uso dei colori primari potente e affasciante, una ricerca stilistica nell’estetica dell’anime che sacrifica il dettaglio morboso per creare qualcosa di più asciutto ma stimolante e dal tratto avvolgente, che nel processo produttivo permette inoltre di risparmiare risorse per concentrarsi sulle animazioni, le quali, non serve nemmeno dirlo, sono stratosferiche in tutti i momenti topici delle 10 puntate. Nello specifico lo studio Trigger eccelle quando si tratta di usare il principio di anticipazione, ovvero quella tecnica che descrive visivamente l’energia d’inerzia, la fisicità e la fisica, realistica o meno che debba essere, di tutti gli elementi in movimento su schermo.
Da vedere insomma è un gran spettacolo, anche perché pure la regia è particolarmente attenta a come incornicia la scena. Imaishi compone sempre dei veri e propri quadri con la scelta di cosa mettere in primo piano, cosa nel background, dove lasciare aria, come distorcere la prospettiva. Praticamente 2 tagli fotografici su 3 potrebbero essere potenzialmente un fighissimo sfondo per il desktop, complice anche la cifra artistica di Yoshinari e colleghi già ampiamente incensata. Studio Trigger inoltre crea sempre dei leitmotiv stilistici per rappresentare in maniera unica ed efficace una emozione o un qualche tipo di condizione che si ripete. Nel caso di Edgerunners ho amato il modo in cui fanno “svarionare” lo sguardo e il corpo delle persone che diventano cyberpsicopatici e cominciano a perdere la testa. Ma ne potrei citare decine di invenzioni di questo tipo. Inoltre la serie da largo spazio agli scorci sulla città, e ogni scena, anche la più insignificante e di transizione per la storia, racconta a schermo con qualche dettaglio la vita di Night City, in particolare mettendo in risalto il classico immaginario cyberpunk, ovvero quello di una città materialista, lussuriosa, con molti quartieri lasciati allo sbando con gente che sta male, si droga, è povertà, ecc.
Ecco, veniamo ai temi di questo anime. Chiaramente c’è anche lo zampino di CD Projekt Red dietro, quindi non siamo di fronte a un prodotto puramente Trigger, ma stordisce comunque, in maniera positiva, vedere un anime Trigger con un mood così cinico. Mai troppo sopra le righe se non durante l’azione in cui le dinamiche sono enfatizzate a mille, capace di cogliere molto bene non solo le suggestioni più affascinanti ma anche i lati più deprimenti della vita a Night City. Non voglio dire che sia un anime più maturo degli standard di Trigger, perché dietro la superficie eccentrica i loro lavori sono sempre molto profondi, ma in questo caso con maturità intendo la presenza di una drammaticità più cruda. C’è una certa ricerca di pseudo verosimiglianza, con una inedita violenza molto esplicita, che mischiata al tema cyberpunk mi riporta davvero agli anni di Alita, Ghost in the Shell e di un sacco di roba oltre che bella, diretta e poco edulcorata. E questo mood così disincantato e per certi versi nichilista dà un tocco interessante all’anime. Un contesto in cui il giovane protagonista David è così schiacciato dalla morsa materialista del sistema in cui è inserito, dove tutto gira intorno ai soldi, che nemmeno ha tempo di piangere una morte.
Per questa esigenza drammaturgica e fatalista del racconto, i personaggi non hanno questo grande plot armor che qualcuno potrebbe pensare. Nei 10 episodi che compongono la loro storia, che chiaramente rappresenta una parentesi nell’universo di Cyberpunk 2077 che non ne va ad intaccare in alcun modo lo status quo, succede di tutto. Ci sono un paio di plot twist in tal senso che oltre ad essere messi in scena in modo da stupire lo spettatore, trasmettono un senso di tensione e pericolosità nei riguardi della vita da mercenari dei protagonisti. Se quindi da una parte Edgerunners sfrutta il genere discretamente ma non in modo rivoluzionario o sorprendente, dall’altra racconta la coinvolgente evoluzione di David e le gesta del suo gruppo. Gli stilemi del cyberpunk infatti sono trattati in maniera convenzionale, abbastanza scolastica, e riguardano per lo più la solita dicotomia tra pulsioni umane e fredda tecnologia, l’implicazione economiche, fisiche, psicologiche, dell’abuso di impianti cybernetici nelle persone e questo tipo di cose.
Non c’è un gran discorso etico o filosofico intorno a questo, è tutto legato agli aspetti pragmatici della storia, senza grosse allegorie o sottotesti. E va bene così, perché Edgerunners è una storia sporca, underground, che parla di gente né buona né cattiva, che si vuole bene, che si vuole male, che affronta il sistema, le difficoltà giorno per giorno, che cresce insieme. È una storia di personaggi ben caratterizzati, come l’intrigante Lucy, a volte calma, a volte folle, con una personalità ricca di charme e di mistero; o Maine, il mentore di David che lo introduce alla “cyber-malavita” e che diventa nel giro di pochi episodi una figura carismatica e di grande importanza come collante del gruppo. Per chi vi parla la parte migliore dell’anime è senza dubbio quella che si concentra su questi aspetti, la prima metà, in cui l’azione c’è ma non è preponderante e prima di un certo time skip in avanti ci si concentra sulla crescita del team e sui rapporti tra i suoi membri.
Nella seconda parte l’anime si concentra più sull’azione, rimanendo appassionante perché tesse le fila di un racconto action noir fatto di tradimenti, operazioni di spionaggio, controspionaggio e salvataggio sempre coinvolgente e anche piuttosto articolato. Ma per me questa è anche la porzione dove della serie tira un pochino i remi in barca nell’esprimere le proprie potenzialità, risultando quella leggermente più difettosa, con una messa in scena degli ultimissimi episodi un po’ caotica, frettolosa e non super brillante in termini di inventiva registica con forse troppa azione basata sugli inseguimenti stradali. In sostanza Edgerunners rimane un anime bellissimo, molto superiore alla media, magari non il più sofisticato di quelli prodotti da Trigger, ma capace di calarci pienamente nell’immaginario cyberpunk sotto tutti i punti di vista, non ultimo quello musicale, e in grado di riempici gli occhi di quell’arte giapponese chiamata Sakuga, associata ai picchi più alti dell’animazione nipponica, cornice di un racconto forse privo di particolari sottotesti ma ciò non di meno ben scritto e ricco di personalità. Da vedere e rivedere.