Un sguardo approfondito al survival horror “made in Italy” che strizza l’occhio all’epoca d’Oro del genere.
Siamo recentemente stati ospiti di Invader Studios, nella loro sede a Olevano Romano, per provare il loro prossimo gioco, e “opera prima” del team, Daymare: 1998. Dalle ceneri del compianto remake di Resident Evil 2, abbandonato in corso d’opera per chiare motivazioni autoriali nonostante il feedback positivo sul lavoro fatto da parte della stessa Capcom, i ragazzi di Invader Studios hanno tirato fuori un nuovo progetto, che conservasse lo spirito da survival horror su cui ormai avevano focalizzato tutta la loro vena creativa, ma fosse in tutto e per tutto un concept originale. Daymare: 1998 quindi nasce sicuramente dall’amore che il giovanissimo team ha per l’opera di Capcom e per tutta la “discendenza” che ha fatto seguito negli anni, ma è sorretto anche dal supporto di tutta quella community che ha seguito con tanto fervore il loro lavoro fin dall’inizio, e che non si è sentita tradita, ma anzi, ha ben accolto la sua trasformazione in qualcosa di unico e nuovo.
Daymare: 1998 d’altro canto non è certo un progetto semplice da sviluppare per diversi aspetti. Anche solo per quella che è la percezione dell’utenza media di un titolo del genere, non è facile per un team indie debuttare con qualcosa che abbia questa “superficie” da titolo AAA. Sviluppare un’avventura in terza persona con un comparto grafico realistico creato con Unreal Engine 4, significa mostrare i denti in un oceano di squali. L’industria dei videogiochi sforna prodotti di questo tipo solitamente con budget e risorse notevoli, per accontentare un ampio pubblico sempre più esigente. Ma i ragazzi di Invaders non hanno paura di “giocare con quelli più grandi”. Anche se Daymare rivela tutta la sua natura indipendente andando a scavare nel dettaglio della sua genesi e soprattutto negli obiettivi creativi, vuole sicuramente competere con il mercato odierno in qualità di prodotto solido e ambizioso.
Per raggiungere lo scopo Invader Studios non ha lesinato nell’impiego di tecniche poco avvezze solitamente ai giovani sviluppatori emergenti, come ad esempio l’uso del motion capture per animare personaggi e nemici, in modo da restituire un feedback visivo di spessore e in linea con gli standard attuali. Basta dare un’occhiata all’ambiente di lavoro di Invader e sembrerà in effetti di vedere la versione “in miniatura” di un grosso studio di sviluppo professionale e organizzato, che cura nel dettaglio tutti i comparti, a partire dalla direzione artistica e stilistica, passando per tutti i settori della programmazione fino alla composizione dell musiche, degli effetti del gioco e del doppiaggio. Ponendo grande attenzione a tutti i processi creativi che rendono un titolo contemporaneo un progetto serio e di livello.
Come detto Daymare: 1998 è un survival horror che si rifà a quella costola di titoli con visuale in “seconda persona” nati con Resident Evil 4, e che sempre di più hanno virato dalle parti dell’action shooter, trasformando la componente “survival” in un fattore di semplice “flavour” e atmosfera, tralasciando quasi totalmente quell’approccio severo e punitivo che in origine andava ad indicare il termine. Daymare ripudia questa deriva e si ispira ai migliori esemplari del genere, quelli che ci tenevano molto alla componente gestionale delle proprie risorse, alla vulnerabilità del proprio alter ego virtuale e al serio pericolo che rappresentava ogni minaccia in game. Giochi come appunto i primi Resident Evil o magari Dead Space. Tutti titoli a cui Invader si ispira in maniera elegante e intelligente, rielaborandone concettualmente alcune scelte di design e facendole proprie, come ad esempio l’HUD diegetico totalmente implementato all’interno del gioco. In Daymare: 1998 infatti tutte le informazioni utili saranno visibili tramite un dispositivo innestato nell’uniforme di uno dei tre protagonisti (2 dei quali ancora totalmente Top Secret), che mostrerà attraverso schermi dai caratteri verdognoli -in pieno stile primo Alien- quali oggetti sono presenti nell’inventario, armi equipaggiate (non più di due per volta), mappa dell’area e quant’altro.
Seppur quindi molti riferimenti ad opere che hanno fatto la storia del genere sono sapientemente velate e innestate nell’impianto ludico, molto più palesi saranno i tributi e le references agli anni ’90 (ma anche al decennio precedente, come suggeriscono alcune scelte stilistiche tipo quella del dispositivo citato prima) che coinvolgono un po’ tutto l’immaginario pop dell’epoca, con cartelloni e riferimenti nello scenario che richiamano film o icone di quella decade. Nel corso della nostra giocata abbiamo potuto provare due build del gioco. Una più vecchia e una più recente. Nella prima dovevamo completare un breve spezzone urbano, percorrendo dapprima alcuni corridoi di un’edificio dall’aria dismessa e deprimente, che mettono in luce la volontà di dare una certa atmosfera all’esperienza, in linea con il genere d’appartenenza. Nei panni di questo soldato al soldo di una fantomatica società chiamata H.A.D.E.S. abbiamo mosso i primi passi fino al raggiungimento di un’area più estesa all’aperto. Qui ci siamo confrontati con uno pseudo zombie, probabile mid-boss vista la tenacia, che bloccava il nostro cammino. Da questo primissimo contatto con il titolo sono già evidenti molti elementi interessanti. Innanzitutto la volontà di creare un vero survival è marchiata a caratteri cubitali in ogni scelta di gameplay emersa dalla demo. Il personaggio si muove con una certa pesantezza, lo scatto è soggetto ad una limitata dose di stamina finita la quale saremo inesorabilmente rallentati per un certo tempo. Inoltre è possibile girarsi di 180 gradi all’istante, ma in generale ci muoveremo nello spazio con dei comandi “character relative”, o in gergo “tank”, un po’ come nei vecchi Resident Evil. Quindi ad esempio direzionandoci “indietro” il protagonista indietreggerà e non si girerà nella relativa direzione.
In questa prima buid addirittura la telecamera poteva essere girata solo entro il margine di rotazione della testa del protagonista. Una feature interessante ai fini del realismo, ma rimossa nella successiva versione probabilmente perché troppo proibitiva in termini di visibilità dell scenario. Daymare: 1998 vuole inoltre non prendere sottogamba il concetto di survival game, spingendo il giocatore a impegnarsi realmente nel gestire bene le proprie risorse e inserendo nel gameplay molti elementi per risolvere le situazioni senza ricorrere alla mera potenza di fuoco. Lo scontro con la creatura della prima demo per esempio, era risolvibile in ben tre maniere. La più semplice ovviamente era abbatterla con tutte le munizioni possibili (possibilità totalmente inibita in questa sede dalla povertà di proiettili reperibili sul campo) la seconda consiste nello sfruttare le circostanze ambientali con interazioni che -ci assicurano i ragazzi di Invader- saranno una costante lungo il gioco, e saranno ben contestualizzate narrativamente. Ad esempio, per qualche motivo il super zombie affrontato è debole all’acqua, ecco quindi che sparare a barili contenenti il liquido, tubature, e quant’altro spinga il vostro intuito a visualizzare come una fonte di acqua, provocherà una fontanella che entrando in contatto con “il bestio” lo renderà molto più vulnerabile ai vostri colpi. Quest’ultimo, sarà infine totalmente evitabile qualora, previo recupero nella zona dello scontro della chiave necessaria, riusciate a fuggire dribblando gli attacchi del nemico (impresa ovviamente complicata dal level design appositamente studiato per non farvi muovere con troppa agilità). In questo caso però, ci fanno sapere, non è detto che non dobbiate fare nuovamente i conti con lui in un secondo momento e chissà, magari con un altro personaggio.
È chiaro come nel suo recupero di un certo tipo di gaming hardcore, Daymare 1998 non potesse fare a meno di porre in cima ai propri obiettivi una vera e propria sfida al giocatore: poche munizioni, nemici difficili da buttare giù e non solo.
Nella demo successiva, che ci proiettava all’interno di una specie di enorme hangar/struttura di ricerca (uno scenario che si distanzia esteticamente dall’area cittadina precedente, e fa quindi ben sperare per una certa varietà “paesaggistica”), entravano in gioco anche i classici puzzle. Ne abbiamo provati un paio più o meno della stessa natura anche se contestualizzati in maniera ben diversa l’uno dall’altro. In entrambi i casi era necessario interagire con un pannello e convogliare da diverse fonti l’energia elettrica (o di altra natura) per ottenere un preciso risultato e attivare la corrente, o sbloccare alcune celle termiche. Anche in questo caso l’approccio old school voluto da Invader Studios ci ha costretti a ragionare -come spesso non si è più chiamati a fare in questi giochi- sugli input visivi di quello che ci circonda, trovando in un documento, una nota, o un’immagine l’indizio per la risoluzione dell’enigma. Un impianto quindi classico in tutti i sensi, a cui però si innestano alcune novità di gameplay che lo differenziano dagli altri prodotti e in una certa misura, permettono al genere di fare uno step in più.
C’è ad esempio una meccanica di gestione delle munizioni che ho trovato davvero brillante. Scongiurando uno degli automatismi più ridondanti di qualsiasi sparatutto in terza persona, che consiste nella ricarica continua della propria arma ad ogni colpo sparato, in Daymare potremmo fare quanto segue: sostituire un caricatore più o meno carico con un altro contenente più proiettili, mettendo da parte il primo per un successivo utilizzo; oppure in alternativa potremmo ricorrere ad una ricarica veloce che getterà a terra il caricatore usato e inserirà nell’arma direttamente quello pieno (ammesso che ne abbiate più di uno ovviamente). Non potrete sempre e comunque avere l’arma alla sua massima capacità, e sarete costretti ad uscire da quella costante “comfort zone” a cui siete solitamente abituati.
La differenza tra i due tipi di ricarica sta nei tempi necessari per svolgere l’azione. La prima è più lenta, mentre la seconda più veloce. Questa caratteristica oltre a spezzare un automatismo entrato nella memoria muscolare di ogni giocatore, avvicina Daymare a quel tipo di realismo cercato dai suoi sviluppatori, e cosa più importante di tutte, aggiunge un ulteriore strato di profondità al gameplay. Infatti durante i combattimenti, dovrete strategicamente capire se riuscirete a ritagliarvi il tempo necessario a sostituire un caricatore con l’altro, tenendo premuto per qualche instante il tasto che permette la lenta operazione, oppure se sacrificare la sicurezza di avere tutti i colpi in inventario, e ricorrere ad una pressione veloce dello stesso tasto, il quale ricaricherà l’arma al volo costringendovi però a mollare a terra il caricatore precedente, da recuperare -sempre che ci riusciate- in un secondo momento. Un concetto molto più facile da assimilare che da spiegare, fidatevi.
Può sembrare solo un dettaglio, ma con buon level design, che ci auspichiamo farà parte delle caratteristiche di Daymare: 1998, questa dinamica può realmente fare la differenza. In fondo, nelle fasi finali dell’ultima demo provata, ci è già stato dato un assaggio delle sue potenzialità e della sua importanza nelle situazioni proposte dal gioco, con una classica fase da “arena a tempo” in cui costretti a stazionare in un’ampia area per un certo periodo, abbiamo dovuto negoziare con un’orda di “zombie” (o qualunque altro nome avranno nel gioco) la gestione degli spazi e delle munizioni mediante la meccanica sopracitata.
Dal punto di vista tecnico, seppur il titolo è previsto circa a metà dell’anno prossimo per PS4, Xbox One e PC, sicuramente c’è ancora molto lavoro da fare. Abbiamo visto diverse imprecisioni nelle collisioni e varie sporcizie tecniche che tradiscono una fase del lavoro avanzata ma sicuramente lontana dall’essere conclusa. Nonostante questo la base su cui Invader Studios sta operando lascia già intravedere i propri obiettivi a livello grafico. È presente un sistema di illuminazione dinamico per la gestione di fonti di luce e ombre, un livello di dettaglio già più che discreto, riscontrato soprattutto nei vicoli cittadini della prima demo, e le animazioni del protagonista sembrano piuttosto convincenti, per quanto alcune di esse ancora non sono state implementate e soprattutto per i modelli degli zombie c’è ancora un ampio margine di miglioramento (Invader Boys, vogliamo un feedback visivo dei nostri spari pertinente e concreto sul corpo dei nemici!Vi prego!).
Daymare: 1998 promette una longevità di circa 5-8 ore (ancora è presto per essere troppo precisi), una narrazione presente e fondamentale nell’economia dell’esperienza, un’esplorazione generalmente lineare ma con qualche area opzionale da visitare e segreti da scoprire, e molte opzioni per personalizzare il gioco a seconda di quanto lo si voglia rendere “hardcore”, con un sistema di salvataggio più o meno proibitivo e la possibilità di attivare secondo le proprie esigenze hint a video per l’interazione ambientale e la risoluzione degli enigmi.
Daymare: 1998 è un progetto con i piedi per terra e le idee chiare: unisce intelligentemente ad una facciata da prodotto mainstream il cuore di un gioco di nicchia, strizzando prepotentemente l’occhio al giocatore veterano, capace di apprezzare un’anima ludica severa ma stimolante e mille tributi stilistici alla cultura pop di un ventennio fa. Allo stesso tempo, pur non avendo la presunzione di stravolgere una formula gioco classica, pare cercare di potenziarla con carattere e personalità, con scelte di game design precise e piccole ma brillanti novità nel gameplay. Daymare: 1998 ha ancora tutto da dimostrare, questo è evidente, ma i numeri per essere uno dei giochi indie più interessanti del prossimo anno ci sono tutti. Incrociamo le dita.