Daymare: 1998 è un survival horror molto giapponese che al netto di qualche ingenuità risulta estremamente piacevole
La storia di Daymare: 1998 è di quelle romantiche (stranamente trattandosi di un survival horror): Invader Studios si stava occupando di un remake di Resident Evil 2 di cui si parlò molto qualche anno fa, seguendo l’approccio che poi Capcom avrebbe effettivamente usato nel suo Resident Evil 2 Remake. Ad un certo punto Invader venne contattata da Capcom, che gli chiese di interrompere i lavori, e invitò il team a Osaka per incontrarsi. Capcom diede delle indicazioni a Invader, e li spronò a continuare sulla loro strada, e infine inserì il team romano nei ringraziamenti di Resident Evil 2 Remake.
Dalle ceneri del remake di Resident Evil 2 prende forma Daymare: 1998, un survival horror che deve tanto alla scuola giapponese (e in fondo non se ne è mai fatto mistero), ma che riesce anche a inserire delle interessantissime novità per quanto riguarda il gameplay.
Iniziamo proprio dal rapporto con l’horror giapponese. Troviamo riferimenti all’immaginario di Resident Evil in moltissimi dettagli, a partire dal nome del reparto speciale di polizia a cui appartengono alcuni dei protagonisti (H.A.D.E.S.), continuando con le location che visiteremo nel gioco, come fogne, cittadine di provincia e laboratori segreti, per finire con la struttura del gioco a più personaggi, il background narrativo raccontato per documenti trovati in giro e i puzzle improbabili. Il racconto anche è in buona sostanza simile a quello della serie horror di Capcom: qualcuno sta sviluppando un virus che si è diffuso e ha mutato in zombie la popolazione.
Spesso la volontà dichiarata di ispirarsi fortemente a qualcosa che già esiste significa un senso di già visto. Il riuscire a tenere fonti di ispirazione e citazionismo al loro posto, senza fargli prendere il sopravvento e quindi restituendo al giocatore una sensazione familiare senza però fargli pensare di avere per le mani una copia di qualcos’altro non è cosa facile, ma in qualche modo Daymare: 1998 riesce in questa impresa.
Questo perché nonostante i chiari riferimenti che permeano tutto il gioco Invader Studios ha deciso di non svolgere semplicemente i compiti, adagiandosi su quanto è già stato fatto da altri, ma di ragionare sui singoli elementi che compongono un survival horror, declinandoli a volte in modo peculiare con buoni risultati.
La novità che più ho apprezzato è la gestione delle munizioni, che è uno degli elementi di base in ogni gioco di questo tipo. Oltre a limitare il numero di proiettili che si possono trovare in giro (in realtà disponibile in quantità abbastanza generosa se si gioca in modo ragionato e senza uccidere ogni cosa che si muove), è stato introdotto un particolare sistema di gestione dei caricatori.
In Daymare: 1998 è infatti possibile ricaricare un’arma che funziona utilizzando caricatori (quindi il discorso non si applica ai fucili a pompa che funzionano inserendo manualmente le cartucce) soltanto se se ne possiede uno con all’interno delle munizioni, e quindi non è possibile pescare i proiettili direttamente dalla scatola che li contiene. Per avere caricatori pronti è necessario entrare nel menu, cosa che però non mette in pausa il gioco, obbligando costantemente a tenere sotto controllo lo stato delle proprie armi. La lentezza nell’apertura e nell’interazione con il PDA che funziona da menu rende assolutamente impossibile l’operazione di ricarica all’interno di un combattimento.
A questo si unisce un’altra meccanica legata alla ricarica delle armi a caricatore. Si può infatti svolgere l’operazione in due modi: velocemente, lasciando cadere a terra il caricatore vuoto, o più lentamente, riponendolo in tasca. Vien da sé che in caso ci si trovi circondati da nemici è più utile essere veloci, ma contemporaneamente proprio in una situazione di quel tipo è più difficile tornare a recuperare il caricatore caduto.
Un’altra meccanica piuttosto peculiare riguarda gli oggetti di cura o di potenziamento. Questi servono a tre scopi: recuperare salute, recuperare stamina (utile per gli attacchi corpo a corpo e per la corsa) e ad aumentare la percezione degli oggetti raccoglibili che circondano i personaggi. L’abuso però porta a un aumento del livello di tossicità, che se supera una determinata soglia porta a una diminuzione dei punti vita.
Ovviamente questo si innesta nella classica struttura del survival horror giapponese: aree da esplorare per trovare documenti e risorse, nemici che a volte si rialzano, nemici che è preferibile evitare che uccidere e soprattutto puzzle, spesso vagamente surreali , come da tradizione del genere (chissà perché nelle fogne di Raccoon City usano chiavi a forma di pezzi degli scacchi…).
Il lavoro svolto sui puzzle è egregio, e non posso negare di essermi trovato spesso e volentieri in difficoltà nel tentativo di risolverli. Per fortuna (o purtroppo, decidete voi) non ci si trova mai nella situazione per la quale è necessario girare decine di volte la mappa per trovare tot oggetti dello stesso tipo. La soluzione è quindi quasi sempre immediata, e non richiede backtracking o esplorazione eccessiva alla ricerca di oggetti nascosti.
Mappe che, ad ogni modo, non sono eccessivamente estese e si esplorano in modo piuttosto lineare. La struttura del gioco, divisa in circa 12 parti, alterna piuttosto rapidamente zone diverse e personaggi diversi, riuscendo anche grazie alla buona varietà offerta a rimanere sempre stimolante fino ai titoli di coda, raggiungibili in circa 10 ore.
Poi, chiaramente, c’è l’atmosfera. Daymare: 1998 si presenta sempre claustrofobico, con aree strette e buie, marcescenti, sporche e abbandonate. Il senso di solitudine è piuttosto forte, dato che non incontreremo praticamente mai altri sopravvissuti. A questa atmosfera di tensione si unisce l’uso limitato ma efficace di jumpscare, che per fortuna sono sfruttati con intelligenza e non diventano mai preponderanti nella costruzione dell’orrore.
La tensione è quindi basata in larga parte, oltre che sull’atmosfera e l’ottima colonna sonora, sulla costante situazione di pericolo e sulla necessità di dosare bene le risorse a propria disposizione, se non si vuole correre il rischio di ritrovarsi disarmati.
Come già detto le munizione, a difficoltà normale, non sono un grosso problema se si utilizzano con intelligenza le possibilità di fuga, se si punta alla testa e se si utilizzano le armi per liberarsi momentaneamente dei nemici senza volere eliminarli. Gli oggetti di cura sono invece più limitati, e spesso ci si ritrova per lunghi periodi in una situazione per cui un altro attacco subito sarebbe l’ultimo.
Daymare: 1998 però non è un gioco perfetto, per quanto riuscito. Alcuni problemi dipendono chiaramente dal budget, come i volti dei personaggi realizzati in modo approssimativo. A livello narrativo non è facile empatizzare con dei personaggi che non riescono mai a bucare lo schermo, e le cui vicende personali non riescono mai a entrarci nel cuore, rimanendo spesso abbozzate quando avrebbero invece potuto diventare decisamente efficaci. Altri problemi sono poi inerenti ad alcune scelte di design non proprio a fuoco, come gli zombie che troppo spesso spuntano da dietro agli angoli o i combattimenti con i boss.
In particolare questi ultimi non sono particolarmente memorabili e quando tentano di fare qualcosa in più della semplice sparatoria si scontrano con delle scelte che non li rendono bene amalgamati con il resto della struttura ludica. Per fare un esempio cercando di evitare spoiler, verso la fine dell’avventura c’è un boss da affrontare preferibilmente sfruttando l’ambiente. Il boss è praticamente impossibile da abbattere solo sparando, ma anche sfruttando l’ambiente sembra avere decisamente troppi punti vita perché sia possibile averla vinta con le risorse accumulate fino a quel punto.
Così è disponibile nell’area una riserva infinita non di proiettili, ma direttamente di caricatori pieni, perché come accennato in precedenza sarebbe impossibile ricaricare l’arma durante lo scontro.
Il combattimento è eccessivamente lungo e logorante principalmente perché sparargli serve a poco a meno che non si abbia veramente molta pazienza. Inoltre, anche sfruttando correttamente l’ambiente non sono offerti margini di errore, e anche non sbagliando rimane necessario sparare troppo, creando uno sgradevole contrasto con le altre meccaniche del gioco.
A prescindere da questi problemi, non sempre così marginali ma neanche in grado di invalidare la produzione complessivamente, Daymare: 1998 si può dire un titolo riuscito.
Il primo lavoro di Invader Studios è un horror che probabilmente non rimarrà negli annali, ma che certamente ci fa ben sperare per i loro prossimi titoli. Daymare: 1998 è un survival horror che, al netto di qualche ingenuità, funziona e si fa giocare con piacere. Ci sono molte idee interessanti implementate in modo intelligente, a prova che il team con più risorse a disposizione potrebbe ritagliarsi uno spazio importante all’interno dello sviluppo italiano.