Un’analisi degli elementi culturali dei videogiochi giapponesi, letti sotto la prospettiva di un cambio di registro di Hideo Kojima.
A seguito della pubblicazione del gameplay trailer di Death Stranding, la community videoludica si è stretta intorno al suo nuovo feticcio, futuro oggetto delle loro febbrili aspettative fino all’arrivo del nuovo, grande, grosso pezzo da novanta. Nell’esagitazione collettiva seguita alla visione quasi religiosa del trailer, alla quale ho partecipato con estrema gioia, in molti si sono lanciati in infinite interpretazioni e possibilità riguardo alle trovate ludiche e narrative che adotterà Hideo Kojima. Tra realtà parallele e mondi sovrapposti, è stato scritto e detto di tutto. Mi lancio dunque anch’io nella mischia, affidandomi a una mia visione specifica delle produzioni e delle opere orientali, soprattutto quelle giapponesi. Infatti, piuttosto che svolgere un tradizionale articolo in cui elenco le varie teorie possibili, che sicuramente i fan più accaniti avranno già gustato con passione e ampiamente digerito, ritengo più utile e appagante cercare di intuire, prima dell’uscita del gioco effettivo, di quali elementi culturali si farà portatore Death Stranding in funzione delle informazioni che ci sono state concesse, con estrema cura e minuzia, fino a oggi.
Death Stranding e Kojima: Il Tempo
Il primo tema rilevante, che emerge con forza a partire dalla descrizione del futuro multiplayer asincrono, è il concetto di tempo. Al contrario delle sue opere precedenti, in cui coesistevano narrazioni lineari, multiplayer competitivi, game over e morti continue, in Death Stranding il flusso degli eventi, e quindi il tempo del racconto, sarà costituito da un unico, grande blocco, che l’autore giapponese promette non sarà interrotto da fenomeni arcaici e tradizioni vetuste come il game over. A partire da queste premesse, viene spontaneo ipotizzare un parallelo con un altro grande designer giapponese, quell’Hidetaka Miyazaki che ha riscritto il mondo videoludico recente, rivoluzionando sia la narrativa ambientale che l’esplorazione interattiva.
Infatti, nelle narrazioni From Software, “il tempo è distorto”, come cita una delle frasi più ricorrenti e importanti della serie dei Souls: ogni morte ha una conseguenza sul mondo di gioco, il cui tempo di distende, si strazia, si espande e si comprime costantemente, dando alle anime che il giocatore spenderà nell’esperienza un sapore diverso, in cui è l’intero “tempo” investito nel gioco ad avere valore, e non solo quelle delle battaglie di successo.
Si potrebbe sostenere che questa particolarità sia più legata a un elemento tecnico, che non a un’influenza culturale. Se da un lato è sicuramente vero che scelte simili vengono fatte in primis per motivi commerciali e di design (d’altronde, fosse altrimenti tutti i giochi giapponesi avrebbero questi elementi, così come tutti quelli occidentali ne dovrebbero essere privi), d’altro canto la vera differenza si sostanzia nel come vengono utilizzate queste dinamiche di narrazione. Ad esempio, si guardi al brand di Shadow of Mordor, e al peculiare sistema Nemesis utilizzato da Monolith: anche in questo caso la morte del giocatore, che corrisponde a quella del suo avatar, porta sempre avanti il mondo di gioco, ha un ruolo specifico e non ha la sola funzione di impedirne la progressione, come con i vecchi cabinati.
La differenza sostanziale è che quella di Shadow of Mordor è una morte “sistemica”, come da tradizione occidentale: il mondo presentato è un insieme di elementi integralmente connessi tra loro, le cui azioni e scelte ricadono inesorabilmente su tutti gli altri pezzi della scacchiera. Al contrario, la progressione dei Souls voluta da Miyazaki è un percorso di perfezionamento dell’individuo, una costante reincarnazione alla ricerca di un Nirvana momentaneo ma viscerale e spirituale, in cui l’avatar e il giocatore sono la stessa identica cosa in virtù del legame emotivo generato dalle sfide proposte.
Tenendo conto di queste distinzioni e influenze, e basandoci su quanto comunicato fino a oggi da Kojima e Sony, l’approccio alla narrazione proposto in Death Stranding sarà una totale rivoluzione dei modi dell’autore giapponese, fino a oggi legato a una struttura abbastanza tradizionale dei tempi del racconto. Il cambio di paradigma appare, sempre affidandoci alle premesse, totale: mettere in scena sceneggiature così serrate, ricche e complesse come quelle a cui c’ha abituati Kojima non sarà semplice, se a ogni nostro errore nel fluire del racconto non corrisponderà un semplice “prova ancora”, ma una vera e propria narrazione conseguente. Questo tema, spesso poco considerato, è invece assolutamente rilevante in ottica narratologica: nel mondo videoludico, “scelte” e “conseguenze” vengono quasi sempre definite solo quelle azioni esplicite che vengono proposte al giocatore, perché il tessuto critico è spesso stato abituato a ragionare in ottica di prodotto, sottolineandone quindi le caratteristiche, e non di opera.
Invece, l’esperienza di ognuno di noi varia anche a seconda della bravura, del numero di morti, in base al livello di difficoltà: è ovvio dunque che costruire una narrazione che non presenti game over sia un cambiamento radicale rispetto all’utilizzo della morte come strumento per “resettare” il racconto, ricominciare da un punto prestabilito, cancellando la progressione dell’esperienza fatta fino a quel momento.
Al contrario dunque della concezione di tempo occidentale applicata ai videogiochi, costruiti come luoghi dove sentirci sempre più potenti e abili, e dove dunque il fluire dell’esperienza si attiva solo quando la perfezioniamo (la performance è l’elemento rilevante), un racconto senza game over espliciti contribuisce a dare peso costante anche ai nostri fallimenti, in un’accezione più taoista e meno cattolica e protestante del tempo, in cui noi (e il nostro avatar) siamo l’insieme di esperienze che abbiamo maturato, sia quelle negative che quelle positive. Unendo tutto ciò alla dichiarata intenzione di Kojima di offrire un gioco con poche sessioni esplicitamente violente, il mio sogno è quello di avere di fronte un percorso che possa permettermi di evolvere e scrivere il mio personale Sam Porter Bridges, senza dove ricorrere a particolari scelte definitive, ma in modo fluido, liquido. Proprio come il tempo.
Death Stranding e Kojima: Lo Spazio
Il secondo tema più rilevante che emerge dalle attuali informazioni in nostro possesso su Death Stranding è legato a doppio filo al primo: lo spazio. Spazio e tempo sono, ovviamente, temi centrali di ogni narrazione, a partire dalla sua concezione fino alla resa complessiva. Nel caso delle culture orientali e giapponesi, però, la distinzione filosofica e concettuale tra questi elementi e incredibilmente netta e distante. Oltre quanto detto prima sul tempo, possiamo affidarci al concetto di horror vacui occidentale e al “ma” giapponese per chiarire brevemente le due differenze d’approccio. Da un lato, infatti, a partire da Aristotele in Occidente il vuoto non è stato considerato come un elemento naturale, appartenente quindi alla sfera dell’immaginazione, carico di un peso negativo e pessimistico: il “vuoto” è possibile solo se viene rimosso il “pieno”.
Nel mondo dell’arte (e quindi anche del videogioco), tutto ciò si è tradotto con stili e tradizioni che tendono a riempire in ogni modo possibile gli spazi, sia a livello pittorico che scultorio: si pensi alle incisioni e ai dettagli dei teatri greci e delle colonne romane, o alle ricchissime decorazioni arabe. Interessante notare come l’imposizione della cultura latino-cristiana in tutta Europa abbia cancellato queste prospettive nel vecchio continente: culture come quella vichinga credevano nella circolarità dell’esistenza e nell’alternanza tra “vuoto” e “pieno”, ma vennero soffocate dal dominio della religione cristiana.
Al contrario, in Oriente, soprattutto a seguito della diffusione del taoismo, lo spazio è costituito al contempo sia dal vuoto che dal pieno, dall’immateriale e dal materiale, rappresentando anche in questo la tipica dicotomia concettuale del Taijitu, dove Yin e Yang coesistono, si scontrano e al contempo collaborano. In questa prospettiva, se il vuoto viene riempito dalla materia, ciò significa che la stessa ha lasciato dello spazio per il vuoto, generando un rapporto di sostanziale reciprocità, in cui nessun elemento esisterebbe senza l’altro. I kakemono (“cosa appesa”) giapponesi venivano posti nella stanza del tè proprio perché la loro caratteristica “pochezza” pittorica permetteva ai partecipanti di sperimentare il vuoto, e di conseguenza di poter comprendere il pieno, il materiale.
Non credo serva fare esempi per chiarire come questi elementi culturali perdurino anche nello sviluppo videoludico e nell’approccio critico al game design: l’open world occidentale deve essere pieno di attività, bulimico, è terrorizzato dal vuoto, dalla riflessione sulla materia. Al contrario, il simbolo di un approccio culturalmente orientale al design dell’open world è uno dei capolavori di Fumito Ueda: Shadow of the Colossus. Nella straordinaria resa stilistica del mondo di gioco, l’artista giapponese restituisce materia alle sue strutture proprio grazie al vuoto con cui le circonda, e la loro magnificenza si percepisce solo in funzione dello spazio infinito che le raccoglie.
Bisogna riconoscere, in questo passaggio, che da questo punto di visto il design delle opere di Kojima è sempre stato più occidentale che orientale: stracolmo di riferimenti, attività, oggetti e azioni dai toni e dai temi molto diverse tra loro (dall’ironia dei playboy alla violenza delle sparatorie), che offrono varietà a discapito della coerenza strutturale. Eppure, in The Phantom Pain potremmo aver già assaggiato la portata principale del portato culturale di Death Stranding: il sandbox dell’ultimo Metal Gear Solid è infatti immenso ma concreto, non eccessivamente diluito in miriadi di attività ma interessato a offrire un’esperienza specifica, diretta, e sfrutta i suoi spazi, e soprattutto i suoi vuoti, per ottenere quest’effetto.
Da ciò che abbiamo visto fino a oggi, sembra che l’esplorazione spaziale di Death Stranding si poggi su collaborazioni asincroniche con altri giocatori, e che sfrutti un ritmo decisamente meno esagerato e violento dello standard del settore. Ritornando alle opere di Miyazaki, le quali offrono un’asincronia abbastanza marcata (i messaggi che un giocatore può lasciare per le Anime future), ipotizzare una simile collaborazione, nell’ottica della costruzione dei legami di cui parla Kojima, non sembra essere qualcosa di azzardato, anzi.
Se esiste un medium visuale adatto a spezzare la tradizione della narrazione lineare, quello è proprio il videogioco. Tanti ci hanno provato, spesso con risultati eccellenti, come Richard McGuire con il suo Here, ma è nella natura intrinseca del mezzo videoludico lo spezzare il racconto e il fluire degli eventi tramite l’interazione, dando all’interattore il potere di intervenire sulla narrazione. Nonostante questo, forse per imbarazzo e desiderio d’imitazione dei fratelli più grandi, il videogioco si è sempre affidato a narrazioni lineari e con la tipica struttura in atti, senza abbracciare del tutto le sue nuove (oramai moderne) potenzialità. La diffusione di nuove tecnologie, unita alle influenze di culture meno dominanti di quelle che attualmente governano il settore (soprattutto occidentali), potrebbe finalmente cambiare queste tradizioni, e da ciò che sappiamo della nuova fatica di Kojima, possiamo sperare con una certa fiducia nel radicale cambiamento di paradigma delle sue opere.
Ricordandoci sempre che, finché non esce, Death Stranding non esiste.