Un’analisi dell’orrore dell’ignoto in relazione alla nostra epoca nell’ultima creazione di Kojima Productions, Death Stranding, e della filosofia di Eugene Thacker
(Attenzione: l’articolo potrebbe contenere spoiler)
In “Tra le ceneri di questo pianeta” il filosofo Eugene Thacker analizza il rapporto tra l’horror soprannaturale nei media e nella cultura popolare e il ruolo dello stesso nella nostra quotidianità e, quindi, nella filosofia.
Infatti, nei primi paragrafi del suo saggio l’autore racconta di come il mondo un tempo percepito come totalmente razionale e noto si sia trasformato negli ultimi decenni in ignoto, tra “disastri planetari, pandemie emergenti, spostamenti tettonici e mari impregnati di petrolio“, un mondo “impensabile, silenziosamente e costantemente minacciato da un’estinzione incombente”.
Se negli ultimi mesi avete incrociato anche solo un trailer di Death Stranding, avrete immediatamente pensato alla perfetta sovrapposizione di questa definizione con il mondo creato da Hideo Kojima, in cui il soprannaturale e l’ignoto aleggiano costantemente intorno, dentro e fuori da noi. In effetti, i punti di contatto tra il pensiero e le opere di Thacker e l’immaginario dell’ultima fatica di Kojima Productions sono numerose, come vedremo più avanti.
Innanzitutto, il mondo, in Thacker, non è sempre lo stesso. Infatti, mondo può indicare l’esperienza soggettiva di vivere nel mondo, o quella oggettiva dello studio scientifico delle condizioni geologiche. Il mondo, quindi, è al contempo umano e non-umano, nel senso che lo osserviamo con parametri e canoni esplicitamente ed esclusivamente umani, ma siamo al contempo consapevoli di sue componenti che rifuggono la comprensione razionale, che rappresentano un ignoto che cerchiamo da millenni di apprendere e far nostro.
È qui che si materializza la Paura, l’incapacità di cogliere quello che pensiamo e percepiamo come “mondo nostro”, ma che in realtà è, semplicemente, mondo e basta. In tal senso, l’intera struttura narrativa e ludica di Death Stranding si basa sulla costante volontà di scienziati, politici e studiosi di cogliere il sovrannaturale e di razionalizzarlo, di spiegare concetti come la morte, la resurrezione e l’estinzione secondo prospettive che ci appaiano più naturali.
Più che l’opera in sé, che alla fine del suo percorso narrativo estremizza le sue urgenze chiarificatrici, esponendosi in numerose spiegazioni che trasformano l’orrore in mera curiosità per appassionati di biopunk (ci torneremo), sono stati proprio i primi trailer di Death Stranding a esprimere in pochi minuti il potere dell’ignoto sull’immaginario collettivo: mastodontici mammiferi spiaggiati in luoghi abbandonati persino dai colori, corpi di varia forma e genere che mescolano attributi e cordoni ombelicali, in un trionfo di conflittualità estreme e incomprensibili.
Come emerge sin dalle prime ore di gioco, numerosi personaggi di Death Stranding cercano di dare un significato all’ignoto, che sia scientifico o teologico, come d’altronde l’umanità ha sempre cercato di fare quando messa di fronte all’incomprensibile.
Nella Grecia classica, l’interpretazione del mondo era in primis mitologica: la tragedia, per esempio, presentava delle divinità capaci di diffondere caos e garantire coerenza e comprensibilità al mondo, che assumeva la forma di un giocattolo nelle mani degli dei. Nel Medioevo, invece, le urgenze di chiarificazione erano di natura teologica: il mondo percepito, quello umano, è quello terreno, mentre il non-umano, ultraterreno, è tale in funzione morale ed etica. Nell’era contemporanea, la risposta ai quesiti sull’ignoto non può che essere esistenziale: ci si interroga sul ruolo dell’individuo e dei gruppi umani in un’era di capitalismo postindustriale e di avanzamento tecnologico sfrenato, prima, durante e dopo le guerre mondiali.
Esistenziale è anche la risposta che si cerca (e ottiene) in Death Stranding: se all’avvio del percorso narrativo appare evidente un legame tra lo sfruttamento naturale e l’apocalisse ambientale, nelle ultime battute dell’opera emerge un fatalismo netto, un nichilismo quasi arrendevole di fronte a un destino segnato dal soprannaturale, e quindi dall’ignoto.
Si è parlato prima di biopunk. Infatti, piuttosto che concentrarsi come accade generalmente sul tema del cyberpunk, focalizzato principalmente sull’immaginare e ripensare i rapporti tra le tecnologie informatiche e la società, Death Stranding analizza il legame tra le biotecniche e il mondo, raccontandoci di una realtà che diventa inconcepibile in virtù di incomprensibili eventi biologici.
Se nella versione italiana vengono definite “creature arenate“, con un’accezione quindi più umanizzante, nell’originale versione inglese i nemici più iconici del gioco sono proprio “stranded things“, cose arenate, un pericolo che assume al contempo la connotazione di “malattia infettiva” (quindi un elemento naturale) e di attacco biologico, a cui bisogna rispondere con una vera e proprio biodifesa statale, uno dei temi più ricorrenti e presenti dell’opera.
In Death Stranding, la vita e la morte si fondono insieme, divenendo al contempo obiettivo da perseguire e nemico da affrontare. Se dunque il pericolo ha origini naturali e non politiche o nazionali (sebbene siano presenti gruppi terroristici e separatisti), è conseguente la nascita di una sorta di angoscia ambientale nei confronti del dominio biologico, di una volontà di controllo dell’ignoto e della natura. Non è un caso se molte delle armi e dei potenziamenti del gioco intervengono sul regolare i rapporti di forza tra soprannaturale e naturale, tra concepibile e inconcepibile, tra umano e non-umano.
In “Cos’è la Biomedia?“, Thacker spiega come nell’attuale contesto ipertecnologico e di costante avanzamento scientifico anche i corpi siano diventati un messaggio, intrisi di tecnica e valori quanto e più di un messaggio, divenendo essi stessi medium.
Sono un modo di normalizzare e\o combattere il percepito, e assumono forme e visioni dal mondo che li circonda, in funzione di cosa vedono intorno a loro. In Uzumaki di Junji Ito, il destino di un intero villaggio della campagna giapponese viene totalmente rivoluzionato dal pensiero di un singolo personaggio, ossessionato dalla percezione della spirale nella sua quotidianità, talmente presente da materializzarsi in forma sempre più fisica nel corso del tempo, e capace, come un virus ultraterreno, di infestare le altre menti della cittadina.
Il protagonista stesso dunque diventa spiraliforme, perché il suo corpo inizia a significare ciò che la sua mente percepisce in modo ossessivo e totalizzante, così come in Death Stranding personaggi come Deadman o Mama assumono la forma fisica dei loro topoi mentali. Non è un caso, forse, che Junji Ito sia uno dei personaggi famosi che hanno prestato il loro volto per l’opera di Kojima.
Ancora, non è un caso se sono i portatori delle DOOMS, una sorta di nuovi geni più avanzati della nostra specie, sono la chiave per costruire una nuova percezione della realtà, grazie ai loro corpi e a ciò che significano per gli altri.
Anche la concezione del tempo, in Death Stranding, diventa orrorifica, perché l’estinzione della specie si sviluppa in parallelo con il costante rischio della perdita di memoria storica dell’umanità, colpita da una “cronopioggia” che le impedisce di riprodurre quei legami e quei concetti che le hanno permesso di svilupparsi.
In uno dei numerosissimi collezionabili presenti nel gioco, Heartman si chiede come possa “il nostro senso del tempo, affinato nel corso di milioni di anni, rimanere intatto, quando abbiamo a che fare con fenomeni così irrazionali?”. E, prima ancora: “i mammiferi crearono gruppi per sopravvivere, e poi comunità ancora più grandi, e per conservare queste strutture gli umani svilupparono l’idea del tempo.
Di conseguenza, se la percezione del tempo e dello spazio viene messa in crisi, è la realtà stessa a cambiare: così come l’uomo, assuefatto dalla spirale, diviene egli stesso spirale, così l’umanità incapace di comprendere e immaginare cosa le sta intorno smette di sentirsi tale, in un mondo-umano, e impazzisce nel dover osservare l’inosservabile. Non è dunque casuale l’invisibilità delle creature arenate, che diventano parzialmente visibili solo ai soggetti muniti di bambini ponte, che legano la realtà umana e quella soprannaturale, che diviene minimamente comprensibile e arresta il divario tra razionale e ignoto.
In definitiva, Death Stranding sembra connettersi in modo inequivocabile alle più moderne prospettive e analisi sull’orrore, l’ignoto e il soprannaturale, affermandosi come un ricco e stratificato luogo di simbolismi e riferimenti, metafore e richiami, capace di raccogliere un insieme enorme di suggestioni orrorifiche e biopunk.