Demon Slayer ha creato un caso nel panorama della cultura pop giapponese, raccontando in maniera sopraffina l’eterna lotta tra uomini e demoni. Un’analisi della prima stagione dell’anime
Nell’aprile del 2019 usciva in Italia il primo numero di Demon Slayer – Kimetsu no Yaiba. Esattamente un anno dopo, l’opera di Koyoharu Gotouge diventa tra i casi più eccezionali del manga giapponese, con record di vendita da far impallidire esempi iconici come One Piece di Eiichirō Oda: nell’anno fiscale ancora in corso, Demon Slayer registra oltre 38 milioni di copie vendute. Un successo del genere sorprende, soprattutto se si pensa che il manga di Koyoharu Gotouge racconta del Giappone popolato dai demoni. Devilman, Saiyuki, Inuyasha: bastano pochi ma significativi nomi per capire quanto siano popolari gli Oni nella cultura dell’intrattenimento giapponese.
Eppure, in questa nicchia all’apparenza satura, Demon Slayer riesce a ritagliarsi un suo ampio spazio. Il motivo risiede in molteplici dettagli, alcuni dei quali vengono particolarmente valorizzati dall’anime curato da Studio Ufotable. Disponibile in Italia su VVVID, la serie al momento conta di una sola stagione di 26 episodi, equivalente al volume 6 del manga. Tanto basta all’anime per attrarre gli spettatori, tra appassionati di shōnen e curiosi in cerca di novità.
Un anime dall’inizio banale
Prima però di addentrarsi nell’essenza di Demon Slayer, bisogna cominciare col dire che l’opera racconta di Tanjirō Kamado, giovane dagli occhi color magenta e da una peculiare cicatrice sulla fronte. Vive in montagna con la madre insieme a fratelli e sorelle. Il padre purtroppo è scomparso. Per sostenere la famiglia, il giovane si reca quotidianamente al villaggio più vicino per potere vendere del carbone. Uno stile di vita semplice ma duro, che però ben rappresenta il Giappone rurale del periodo Taishō (1912-1926), contesto in cui è ambientata la vicenda. Tornando a Tanjirō , un giorno è costretto a sfruttare l’ospitalità di un abitante del villaggio per evitare di diventare preda dei demoni, che di notte insidiano le foreste e le case del paese, in cerca di carne umana.
L’indomani, al rientro a casa, lo spettacolo che Tanjirō si ritrova davanti agli occhi è terribile: l’intera famiglia giace a terra dissanguata, con gli occhi rivolti nel vuoto o chiusi. L’unica sopravvissuta sembra Nezuko, la sorella. Il giovane corre spinto dalla speranza di poterla salvare, ma il sangue del demone che ha causato lo sterminio della famiglia è entrato in circolo nell’esile figura della ragazza, tramutandola a sua volta in un demone. Da qui la svolta che dà inizio a Demon Slayer: Nezuko non attacca gli uomini. Non è in grado di parlare, a volte assume espressioni mostruose ed è incredibilmente agile, ma non ha bisogno di sangue umano per sopravvivere. Spinto da questo miracoloso risvolto, Tanjirō si arruola tra i cacciatori di demoni con l’obiettivo di trovare un antidoto che possa riportare la sorella a vivere da umana.
Un incipit banale, che richiede pure più puntate del previsto prima di decollare in maniera inaspettata. Il pretesto da cui parte la storia a doppio filo di Tanjirō e Nezuko non è altro che un modo per addentrarsi nelle ambizioni torbide dell’uomo. La forma demoniaca è infatti l’esasperazione di un desiderio. Eppure, il marcio che i protagonisti e altri personaggi di spessore si ritrovano ad affrontare cela comunque un barlume di umanità. In Demon Slayer, la malinconia si fonde spesso alla dolcezza, ed è in questo particolare contrasto che risiede parte della bellezza dell’opera di Koyoharu Gotouge.
Il riferimento al Devilman di Go Nagai nell’introduzione non è casuale: in entrambi i casi i demoni non sono un mero male da sconfiggere, ma nascondono riflessioni più profonde. Certo, ognuno delle due opere lo fa con una propria visione: il nichilismo e il pessimismo di Devilman non appartengono a Demon Slayer, che invece mantiene un’atmosfera più scanzonata, pur concentrandosi sulle sfumature della lotta tra bene e male.
Demon Slayer: un adrenalinico mix di violenza e profondità
Tali sfumature diventano ben marcate grazie a un’attenta caratterizzazione dei personaggi. Basta Nezuko per comprendere ciò: non pronuncia mai una parola, e parte del volto è coperto da una canna di bambù a cui tiene attaccati i canini, tuttavia il suo candore caratteriale appare sempre più chiaro nel corso degli episodi. Lo stesso Tanjirō, che rappresenta l’eroe puro poiché mette il bene altrui sempre davanti a tutto, risulta comunque interessante. Il rispetto per gli altri è la forza motrice da cui scaturisce la sua volontà di tentare il tutto e per tutto, anche di fronte al dolore.
Uno degli elementi ricorrenti di Demon Slayer è la sofferenza, sia fisica che mentale. Nell’anime, gli adrenalinici combattimenti tengono costantemente con il fiato sospeso, soprattutto perché è facile percepire il dolore muscolare di Tanjirō, o le sue preoccupazioni per Nezuko, e non solo. Entrambi i personaggi acquisiscono valore grazie al loro solido legame di fratelli. Osservandoli, non è azzardato pensare a Edward e Alphonse Elric di Full Metal Alchemist Brotherhood.
Nel corso dei 26 episodi, viene presentato un nutrito cast di personaggi secondari, come ogni shōnen che si rispetti. In Demon Slayer le due spalle principali, ovvero Inosuke Hashibira e Zenitsu Agatsuma, partono con un carattere fortemente stereotipato – uno orgoglioso-aggressivo, l’altro piagnucolone-dongiovanni -, ma come Tanjirō riescono a catturare l’attenzione e a innescare l’empatia. In realtà con Zenitsu accade un po’ meno, poiché la durata delle scenette con i suoi pianti e le sue urla diventa spesso indigesta. Almeno nella versione anime. Discorso diverso invece per la schiera di antagonisti e cacciatori di demoni davvero promettente, che accresce l’interesse per la stagione 2, ancora in via di sviluppo e senza data d’uscita. Tra i personaggi più riusciti occorre citare Shinobu Kocho.
In generale, il forte appeal dei personaggi deriva anche dalla qualità dei disegni e dalla fluidità d’animazione. L’anime di Demon Slayer è un vero spettacolo per gli occhi, dove i colori tetri e spenti delle ambientazioni si mischiano ai colori accessi degli sguardi e degli abiti dei personaggi. I contorni spessi riprendono fedelmente quelli del manga, dando valore non solo ai visi di protagonisti e nemici, ma soprattutto ai combattimenti. Che sia respirazione dell’acqua o del fulmine, la resa degli attacchi nati dalle katane è magnifica, e il dinamismo degli scontri acquisisce enorme qualità. Ad aumentare l’adrenalina vi è poi una soundtrack che oscilla tra sonorità epic-electro e sinfoniche.
Difficile rimanere impassibili una volta conclusa la prima stagione di Demon Slayer. Per questo motivo, chi ha letto sin qui e non ha ancora avuto modo di approcciarsi all’anime tratto dall’opera di Koyoharu Gotouge, ha trovato un ottimo modo per trascorrere la quarantena. Soprattutto gli appassionati di shōnen ne resteranno colpiti. Certo, può far desistere non sapere quando ci sarà una seconda stagione, ma si potrebbe avere speranza per il film che vedrà la luce in Giappone il prossimo 16 ottobre, oppure si potrebbe slittare sul manga, che comunque merita ampiamente. Ciò che importa è concedere un’occasione a Demon Slayer per restarne coinvolti.