Una carriera alla ricerca della perfezione
In molti si stupirono quando uscì la notizia di un sequel di Blade Runner. In molti ebbero paura. Lo spavento iniziale lasciò il posto all’analisi, e alla necessità di comprendere di più, di andare a scoprire chi fosse questo Denis Villeneuve.
Già, perché eccetto noi addetti ai lavori, che siamo in qualche modo costretti a recuperare mensilmente opere cinematografiche che per un motivo o per un altro ci siamo persi per strada, fino a poco fa il suo non era un nome che richiamava orde di pubblico.
Eppure il suo talento cristallino è emerso da subito.
Denis Villeneuve nasce in Canada nel 1967, e arriva agli onori della cronaca tacitamente nel ’94, quando realizza in Giamaica un primo corto commissionato dall’Agence canadienne de développement international. Solo due anni dopo partecipa al film collettivo Cosmos, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes.
Esordisce finalmente alla regia solitaria di un lungometraggio nel 1998, con Un 32 août sur terre, che presenta addirittura a Cannes nella sezione Un Certain Regard, e riceve ben sette candidature ai Premi Jutra (in patria), tra cui quelle per il miglior film e il miglior regista, finendo per esser scelto come rappresentante del Canada per l’Oscar al miglior film straniero.
La strada per Villeneuve è in discesa.
Arriva così la sua seconda opera, Maelström (2000), che scrive e dirige, e lo presenta nella sezione Panorama al Festival di Berlino, vincendo il Premio FIPRESCI, e trionfando poi pure in Canada, ottenendo diversi riconoscimenti. Maelstrom è un film particolare, a tratti angosciante, sicuramente d’impatto ed una delle tante prove fatte per capire esattamente cosa voglia comunicarci e come, artisticamente, voglia farlo. Qui sceglie una narrazione ruvida, affidando il racconto ad un terrificante e nauseabondo pesce squartato, costruendo un film che spazia tra più generi come a voler cercare autonomamente una propria identità.
La stessa che probabilmente cerca Villeneuve, dato che da qui alla sua successiva pellicola passano ben 9 anni. Nove anni di attesa, di studio, che danno vita a Polytechnique. Un film forte e violento, ancora tremendamente d’impatto, che ci racconta la strage avvenuta il 6 dicembre del 1989 all’École polytechnique di Montréal, quando il venticinquenne Marc Lépine uccise a colpi d’arma da fuoco quattordici studentesse, prima di togliersi la vita. Un’opera totalmente in bianco e nero, tecnica che aiuta il regista a donare al tutto un’aura cupa e drammatica, tinte e tecnicismi totalmente agli antipodi rispetto al suo attuale cinema, con un minimalismo che a guardare oggi i suoi lavori appare impensabile.
Eppure tutto questo fa parte del percorso del regista, alla ricerca del proprio Io professionale, del modo più autoriale di mettere in scena i suoi sentimenti e le sue idee.
Percorso che lo porta un anno dopo, quindi nel 2010, a girare La donna che canta. Un racconto ancora una volta crudo, che si manifesta in una delle narrazioni probabilmente più violente del regista. Rispetto ai precedenti lavori questo sembra un film istintivo (non a caso viene girato a così breve distanza da Polytechnique), ma soprattutto è uno dei prodotti in cui si percepisce meno il virtuosismo e in un certo senso il narcisismo del regista dietro la telecamera, in favore della naturalezza aggressiva della storia.
Passano tre anni stavolta, ed è il momento buono per farsi conoscere dal grande pubblico. Prisoners (2013) è un film ancora diverso rispetto al più recente Villeneuve, e risente di dinamiche, plot e struttura che scandagliano in profondità l’animo umano e portano alla luce temi forti seppur, in fondo, triti. L’odio e la sete di vendetta sono ancora presenti e viscerali, in un cinema che inizia però a suggerire sfumature diverse, con ambientazioni noir, una differente cura della fotografia e di alcuni aspetti visivi, favoriti ovviamente da un budget che gli consente determinati tecnicismi, e con un cast artistico che si avvale di nomi come Hugh Jackman e Jake Gyllhenaal.
Nel processo sperimentale di Villeneuve il thriller acquisisce un’importanza particolare, e sarà proprio questo il genere del suo film immediatamente successivo, Enemy (2013), sempre con J. Gyllhenaal protagonista.
Enemy è un’opera fondamentale nella crescita professionale di Villeneuve ed un punto di svolta. Al di là delle ovvie differenze con i recentissimi lavori del regista, qui anche l’occhio meno clinico noterà sensibili modifiche nel modo di girare e di concepire il film stesso. La sua cura dei dettagli e l’autocompiacimento (in senso positivo) schizza a livelli che fino a quel momento non avevamo visto, partendo da una trama originale e in grado di catturare da subito l’attenzione del pubblico, fino agli aspetti puramente tecnici, primo tra tutti la fotografia, con forti tinta ocra e una direzione convulsa che inizia mostrarci il modo più attuale di Villeneuve di far girare la telecamera. Alcune sequenze dall’alto, se riviste adesso, ci fanno tra l’altro venire subito in mente Blade Runner 2049.
Questi cambiamenti sono senza dubbio dovuti ad una presenza che da Prisoners in poi sarà più o meno fissa nella carriera del regista, salvo la parentesi Arrival. Parliamo del direttore della fotografia Roger Deakins, per 13 volte nominato agli Oscar, e che probabilmente otterrà la 14esima candidatura con Blade Runner 2049 (e chissà, magari anche la benedetta statuetta, finalmente).
Il suo marchio è percepibile in tutti questi film, che seppur si differenziano in quanto a stile portano sempre in seno un’attenzione certosina, che poi è la stessa di Villeneuve.
Sicario, opera del 2015 con Benicio Del Toro, Emily Blunt e Josh Brolin tra i protagonisti, mantiene e rafforza gli aspetti tecnici che si erano già visti negli ultimi film, con gli stessi spasmi dietro la macchina da presa, con una fotografia che ancora una volta si attesa come uno dei punti più importanti dell’opera e di cui il regista si serve non solo come un contorno estetico ma per farci immergere nel racconto. Un racconto che continua un po’ a pescare in quella sua vecchia indole professionale che ricerca una caratura estrema, con “valori” esasperati come la vendetta che emergono in tutta la loro forza ma che al tempo stesso pone la strada per quel cinema del dubbio, quelle atmosfere di spaesamento che non permettono di capire al pubblico, ma anche soprattutto ai protagonisti, dove sia il male e dove il bene, tematiche che avranno un interessante sviluppo nel suo successivo lavoro: Arrival.
Il 2016 è infatti l’anno di quest’opera così suggestiva ed incredibile, che fa esordire e consacra immediatamente Denis Villeneuve in un genere che pare fatto apposta per lui: la fantascienza.
Recentemente il regista ha dichiarato in più di un’intervista che il genere dello sci-fi deve moltissimo a Nolan, il quale con Interstellar ci ha fatto vedere ancora una volta quanto di autoriale ed intimista ci possa essere persino in un film del genere. Come spesso accade, Nolan fa scuola, e negli ultimi anni abbiamo assistito ad una particolare deriva del genere sci-fi, che si tratti di viaggi interstellari, che ci sia il contatto con entità extraterrestri o si abbia a che fare con catastrofi climatiche, risulta comunque chiaro ormai che raccontare una storia fantascientifica non vuol dire più stupire con la commistione di un buono script e immagini ed effetti mirabili, quanto per la necessità di un approccio ideologico e/o spirituale.
Arrival non fa eccezione, anzi, fa scuola a modo suo. Perché nonostante possa aver preso spunto da opere del passato, ammiccando – oltre a Nolan – a Spielberg, rifacendosi un po’ alla visione di Malick, e persino pescando un po’ da Cuaròn, l’opera di Villeneuve è quanto di più autoriale si possa chiedere e quanto di più nuovo abbiamo visto nel genere in questione, soprattutto negli ultimi anni.
Arrival è una commistione di sensazioni, dalla tensione all’inquietudine, passando per la curiosità, che ci stordisce e ci regala lo stesso effetto collaterale nauseabondo che prova Amy Adams al termine delle sue sessioni dentro il “guscio”. Villeneuve esplora il campo minato della mente, applicandolo ad un genere pericoloso come quello fantascientifico, parlandoci dell’importanza del linguaggio (ma non solo di questo), a livello universale, che sia esso tra umani o con gli alieni.
La potenza delle immagini è la più invasiva che finora ci abbia regalato ed il modo in cui fa vorticare la camera da presa è forse la più esagerata, ma anche la più funzionale alla narrazione e a quel senso di fantastica repulsione che pervade l’opera.
La strada spianata, di nuovo, per il progetto futuro che ha un nome piccolo piccolo: Blade Runner 2049.
Realizzare un sequel del genere avrebbe spaventato chiunque, ma non Denis Villeneuve, che ha le spalle larghe e va incontro al pericolo con la consapevolezza dei forti, e soprattutto con quella di voler rendere omaggio al maestro Ridley Scott, realizzando un film che diviene la sua dichiarazione d’amore alla settimana arte e ad uno dei cult più grandi in assoluto.
Blade Runner 2049 non è un capolavoro, e difficilmente sarebbe potuto esserlo, ma è un film tecnicamente (quasi) perfetto, visivamente uno dei migliori lavori visti negli ultimi anni ed è l’emblema della cura maniacale del regista, che non lascia nulla al caso e si avvale ancora una volta del suo vecchio amico fidato, il direttore della fotografia Deakins, ma assicurandosi anche uno dei migliori scenografi sulla piazza, ovvero il premio Oscar Dennis Gassens.
Blade Runner è anche un manifesto della nostalgia, una vecchia fotografia ingiallita, nei nostri ricordi, ed è sostanzialmente un piacere per gli occhi e per la mente. È fantastico perdersi nel fuligginoso silenzio costruito da Villeneuve. Una quiete apparente che poi lascia spesso spazio a momenti di sporadica ma forte violenza, che ci ricorda le origini professionali del regista, con la sua indole che emerge a più riprese a dispetto del suo nuovo modo di concepire il cinema.
Se dobbiamo trovare un difetto a questo regista, soprattutto in questo suo “nuovo corso”, è una mancanza di concretezza che se volessimo essere cattivi potremmo addebitare all’irrefrenabile necessità di monitorare tutto dal punto di vista visivo ed estetico, di fornirci dei meravigliosi quadri a cui però manca sempre un quid per raggiungere la perfezione.
La visione e l’occhio divengono il simbolo materiale e metaforico di un film in cui questo elemento viene riproposto più volte e in diverse salse, sia in modo materiale che in maniera più astratta, come quello di una società “vetrinizzata”, monitorata e controllata costantemente, o ancora quello dello spettatore, affascinato dalla bellezza, dal trionfo visivo che gli si presta davanti, in modo ancor più netto rispetto ad Arrival.
Noi, a proposito di tutto ciò, non vediamo l’ora di guardare il prossimo lavoro di questo visionario e geniale regista, soprattutto ora che sappiamo che impasterà le sue mani in un altro progetto altrettanto impegnativo: il reboot di Dune. Siamo sicuri che Lynch in fondo possa dormire sogni tranquilli, perché a prescindere dai piccoli difetti Villeneuve sta compiendo passi da gigante e il capolavoro potrebbe essere dietro quest’angolo o dietro il prossimo, ma siamo certi che arriverà, perché lui è il regista del futuro.