Quantic Dream tenta un salto qualitativo non indifferente nel genere del videogioco narrativo cinematografico.
Siamo stati recentemente ospiti di Sony che ci ha invitato a partecipare ad un evento dedicato ad una delle punte di diamante tra le esclusive per PlayStation 4 del 2018, ovvero Detroit Become Human di Quantic Dream, titolo previsto per il 25 maggio. Non è la prima volta che vediamo il gioco, ma mai l’occasione è stata tanto ghiotta come quella di Milano, in cui ci è stata data la possibilità di provare il titolo per 2 ore abbondanti. In questo tempo siamo riusciti a vedere una buona porzione della storia legata a tutti e 3 i protagonisti del gioco, più precisamente a quelli che sono i primi capitoli delle loro rispettive trame. Siccome ancora una volta come da tradizione Quantic Dream, ci troviamo davanti ad un gioco fortemente narrativo, mettiamo subito le cose in chiaro, in questa anteprima NON si scenderà assolutamente in dettagli per quel che riguarda gli eventi visti, sia perché ci è stato direttamente –e giustamente- chiesto da Sony stessa, sia perché molte cose vanno vissute e scoperte per forza in prima persona.
Limitiamoci quindi in generale, a parlare delle impressioni globali sul titolo e sulle sensazioni provate, delineando solo per sommi capi il background narrativo. Come sappiamo bene, Detroit Become Human racconta del rapporto tra uomini e androidi in un futuro non troppo lontano, nel 2038 e la storia si sviluppa proprio attraverso la prospettiva di tre persone artificiali, che nel mondo di Detroit, vengono integrati nella società facendogli svolgere mansioni di ogni tipo, dal badante, al corriere, il medico, ecc. Gli artisti di Quantic Dream sono stati molto bravi nel definire stilisticamente questo ipotetico periodo storico. L’architettura, il design, fino ai dettagli come gli arredi interni o lo stesso modo di vestire degli abitanti di questa Detroit del futuro, sono fatti in modo da essere verosimili e ricercati. Particolari e futuristici ma non troppo distanti dal nostro vissuto.
In realtà l’intero comparto tecnico è qualcosa di incredibile, probabilmente ancora mai visto su console da casa. Non è solo una questione di dettaglio, ma anche di animazioni e soprattutto, di espressività che avvicina i personaggi al fotorealismo. Più di una volta infatti durante una scena dialogata particolarmente lunga, dimenticavo di avere a che fare con un videogioco e mi sembrava di assistere ad un film o una serie tv. Una sensazione ancora mai avuta con nessun prodotto simile. Eppure, sempre di videogioco parliamo e paradossalmente, nonostante la natura fortemente cinematografica dell’opera, questo Detroit ce lo ricorda ancora più che in passato. Sarà il contesto creato, che ci permette di leggere l’interfaccia a schermo, le varie indicazioni e addirittura, segnali che limitano l’area di gioco (rimane pur sempre un titolo fortemente lineare) attraverso gli occhi di un androide, e quindi un essere che verosimilmente decodifica in qualche maniera ciò che vede, o sarà anche che più che mai Quantic Dream ha deciso di farci capire sempre quale strada stiamo prendendo. Ad ogni capitolo infatti corrisponde una schermata riassuntiva che vi mostra ogni possibile diramazione percorribile, svelandovi naturalmente quella che avete preso voi ma facendovi anche capire quante altre possibilità ci sono, fornendovi addirittura dei checkpoint per ripercorrere un pezzo di storia in maniera diversa.
Sottopelle questo Detroit infatti sembra molto più intenzionato a svelarci gli altarini dietro il nostro operato, a farci capire quanto ci avviciniamo ad un determinato risultato. Non necessariamente per rendere il gioco più “semplice” per quanto questa definizione abbia senso in un gioco in cui ogni scelta è contemplata, ma anche solo per permetterci di orientarci meglio nelle numerose variabili. Questo è particolarmente evidente nell’arco narrativo di Connor, un personaggio legato maggiormente alla dimensione “ludica” di Detriot, nella misura in cui il suo lavoro investigativo ci mette davanti ad un obiettivo sempre ben determinato, come sventare un omicidio, risolvere un caso, carpire delle informazioni da un interrogatorio. Ecco quindi che c’è ben più da fare che scegliere la frase giusta, ma anche controllare le prove, raccogliere indizi, ricostruire eventi e addirittura tener conto del livello di stress del nostro interlocutore. In effetti Connor è il personaggio più “freddo” del gruppo, quello relegato all’anima più oscura di Detroit, che nei capitoli che abbiamo potuto giocare ci ha ricordato molto Heavy Rain. Kara e Marcus invece seppur estremamente diversi tra loro (e dallo stesso Connor) sono personaggi che ci vengono introdotti in maniera molto più morbida e classica. La cosa che ho particolarmente apprezzato, è l’estrema efficacia dei loro incipit, la carica emotiva, la capacità descrittiva di delineare i loro background, tutt’altro che scontato.
C’è decisamente una maturazione non indifferente sul piano della scrittura dei dialoghi e delle scene in questo Detroit rispetto a Heavy Rain e Beyond Two Souls, c’è una maggiore consapevolezza dei mezzi usati. Non vi nascondo che questo miglioramento, unito ad una rinnovata espressività dei personaggi, sono riusciti non solo a rendere particolarmente vividi i due protagonisti ma anche estremamente emotivi diversi passaggi delle loro vicende iniziali, i quali andranno ad innescare uno status quo su cui sicuramente verterà la trama (che possiamo quantomeno intuire) ma che ancora non abbiamo visto. Molto significativa, seppur prevedibile, anche la possibilità di cambiare in maniera veramente drastica il percorso dei due personaggi fin dall’inizio. Nella nostra prova tale situazione è stata notata con grande enfasi soprattutto per quel che riguarda Kara, l’androide domestico che si troverà ad interagire con una ragazzina che può andare a ricoprire un ruolo di importanza estremamente variabile nella sua storia.
Sin dall’inizio è possibile gettare dei presupposti totalmente diversi sullo sviluppo della sua trama. In Detroit però non ci sono solo scelte didascaliche come quelle descritte poc’anzi parlando di Connor, per lo più legate all’investigazione, ma ci sono tante piccole scelte che a livello molto più implicito definiranno la natura dei nostri personaggi, pur sempre androidi a cui potremmo con piccoli o grandi gesti donare e definire una determinata personalità, e che ci permetteranno di vivere scenari, talvolta estemporanei, talvolta, presumiamo, fondamentali per il nostro futuro, sempre diversi. Significativi in tal senso sono stati due momenti nei prologhi di Marcus e Kara, il primo chiamato a dipingere su una tela i propri sentimenti (tramite un nostro input ovviamente) e la seconda a scegliere dove passare la notte durante la sua fuga. In questo caso, trovare una stana in un motel o rifugiarsi in una casa abbandonata, nonostante l’apparente irrilevanza di due scelte chiamate a soddisfare la medesima esigenza (ripararsi per la notte), due luoghi differenti hanno innescato situazioni che raccontavano cose ben diverse.
Insomma, per quel che abbiamo potuto vedere e provare, Detroit: Become Human parte alla grande. Al di là delle premesse narrative e del contesto, sicuramente forse non originalissimo ma senza dubbio suggestivo, è proprio il lavoro nel dettaglio che ci ha stupito. Una capacità di comunicare attraverso la recitazione virtuale, una regia, e una sceneggiatura che al momento sembra brillante, accompagnano quello che può sembrare il “solito” gioco a bivi di Quantic Dream, ma che ci dà l’impressione di inserire nel contesto interattivo molte più variabili che in passato, e quindi forse, ci permetterà di “personalizzare” ulteriormente l’esperienza. C’è solo da sperare che la storia non vada a perdersi andando avanti, vizio che ahimè hanno un po’ tutte le produzioni di David Cage. Incrociamo le dita.