La smodata ambizione di David Cage
È passato un bel po’ da quando abbiamo messo le mani sulle prime notizie concrete relative al nuovo progetto di David Cage. E diciamocelo: non è bastata qualche news a rassicurarci su quello che sarà il destino di Detroit: Become Human. Cage, del resto, è sempre stato altalenante nella sua produzione, e a dispetto del successo straordinario ottenuto dal suo Heavy Rain, il titolo successivo, ossia Beyond, ci ha lasciò tanto interdetti quanto contrariati. Ma archiviamo il passato. Il prossimo anno metteremo finalmente le mani su Detroit, progetto largamente rinviato e spesso quasi taciuto, probabilmente proprio a causa dello scontento causato dal suo predecessore. I motivi di rimandi e rinvii, in realtà, parrebbero comunque altri, e dovrebbero essere ricercati, a dire di Cage, nella complessità dello script che, pare, sarà molto più vasto ed intricato di quello offerto da Heavy Rain, senza mezze misure il miglior gioco offerto da Quantic Dream, ancor meglio dello stravagante Fahrenheit.
In occasione dell’E3 di quest’anno, abbiamo avuto allora una doppia occasione. In primis quella di mettere mano al gioco grazie ad una demo offertaci da Sony durante la sua PlayStation Night romana (praticamente l’unica occasione che potreste aver avuto per vederci in tiro), in seconda istanza l’annuncio di un nuovo personaggio giocabile, Marcus, annunciato grazie ad un lunghissimo video di presentazione rilasciato in occasione della convention di Los Angeles. Il connubio delle due cose ci ha permesso, finalmente, di avere un’idea un po’ più chiara di quello che potrebbe essere Detroit, e la cosa ci ha francamente rincuorati. Certo, la fiducia verso Detroit non è ancora incondizionata, e i dubbi verranno fugati solo con la versione finale, ma intanto lo sviluppo sembra procedere bene e c’è da dire che, rispetto al passato delle produzioni Quantic Dream, Detroit sembra anche approfondire le sue meccaniche ludiche, aumentando non di poco l’interattività rispetto anche solo al suo sfortunato predecessore.
Be human, or not
Detroit: Become Human si concentra sulla storia di tre personaggi, Kara, Connor e Marcus, tutti molto diversi, ma collegati da un dogma fondamentale: non sono uomini, ma macchine. In un futuro inprecisiato ma non troppo lontano, l’evoluzione tecnologica ha permesso la creazione di androidi le cui fattezze umane particolarmente rassomiglianti ne hanno permesso l’integrazione all’interno della società. Gli androidi svolgono compiti nel quotidiano, sorvegliano famiglie, aiutano bambini, e trovano lavoro anche in ambiti particolarmente rischiosi. Nonostante l’assoluta sovrapponibilità estetica con la razza umana, e la presenza di una qualche forma di coscienza positronica, gli androidi sono però visti solo come oggetti, meri elettrodomestici, atti a svolgere compiti, magari con empatia, ma comunque nulla più che macchine. In questo scenario, intavolato in una Detroit al neon oscura e nuvolosa, combaciante con il canone imposto da un certo tipo di immaginazione cinematografica, il giocatore si troverà allora a vivere le storie dei tre personaggi, ognuno di questi con un obiettivo molto specifico che finirà, quasi certamente, per confluire in un disegno più grande. Kara, con il suo bisogno e la sua incapacità di trovare un posto nel mondo, Connor impegnato nelle sue investigazioni nelle vesti di mediatore per la polizia locale, e Marcus, automa rivoluzionario a capo di un gruppo che ambiscie alla parità dei diritti tra uomini e macchine.
Così come lo possiamo ammirare oggi, Detroit: Become Human sembrerebbe ripescare da gran parte del filone della letteratura di fantascienza di stampo asimoviano per mettere in piedi una storia con tutti i crismi, in cui la definizione di “umano” è data dall’azione più che dalla carne e dal sangue. Pad alla mano abbiamo potuto giocare uno dei livelli dedicati a Connor, mediatore, investigatore, fondamentalmente un poliziotto robotico. La scena del crimine ci ha visto protagonisti della liberazione di un ostaggio, un androide che, sentitosi messo da parte, ha rapito la bambina di cui si è preso cura per anni, minacciando di ucciderla se non avessimo ascoltato le sue richieste. In questo frangente il gioco è stato tanto intuitivo quanto appagante. Girovagare per la casa, nulla più che una estesa scena del crimine, alla ricerca di indizi, è stato funzionale alla raccolta di informazioni per poter prendere confidenza con il rapitore, permettendoci magari di guadagnarne la fiducia e liberando così la bambina senza colpo ferire. Abbiamo avuto quasi l’impressione di giocare ad una versione rivista e perfezionata del controverso L.A. Noire, o, se volete un confronto in casa, a quello che forse sarebbe potuto essere il gameplay dedicato a Norman Jayden in Heavy Rain se le cose fossero andate in modo diverso. La corso contro il tempo di Connor, la curiosità nella ricostruzione digitale dei fatti accaduti sulla scena del crimine (ricostruzione, per altro, molto simile a quelle che potreste aver giocato con Batman nella serie Arkham) hanno reso l’interattività, e la soluzione del caso, molto appaganti. Risollevando non poco la nostra considerazione del titolo dopo i succitati errori commessi da Beyond.
La cosa che ci ha colpito è stato il contrasto tra l’ipotetica freddezza di Connor e l’empatica disperazione del rapitore. Due macchine, profondamente diverse. La prima fredda, matematica, calcolatrice. La seconda disperata, affranta, delusa, gettata nel panico da quello che è un algoritmo che invece l’uomo ha ampiamente masticato e digerito: quello dei sentimenti. E forse è questa la più bella premessa di Detroit, quella di mettere in dubbio il concetto di umanità, e di distaccarsi dalla dicotomia che vorrebbe le macchine aggressive o passive. Del resto, è il fulcro della grande letteratura del “Ciclo dei robot” di Asimov, che con i suoi robot positronici si distaccò dalla medesima classificazione creando, così, robot che fossero soggetti alle ben note 3 leggi. Cage riprende la sua passione per il dramma umano, per la sua ricerca esistenzialista e lo trasporta sulle macchine, rendendo il tutto forse per taluni banale (per chi?), ma sicuramente affascinante. Che poi tutti si sublimi è da vedere ma, per ora, le cose sembrano viaggiare nella giusta direzione.
A contorno, lo straordinario corredo di variabili a cui Quantic Dream ci ha abituato sin da Fahrenheit. Ad accompagnare l’azione ci sono scelte, possibilità, dialoghi, bivi, e più che in passato abbiamo avuto l’impressione che tutto vada in una direzione precisa e personale, e non verso un unicum narrativo come invece successe in tante opere simili partendo proprio da L.A. Noire (il cui confronto, lo specifichiamo ancora, è personalissimo) per finire proprio a Beyond. Questo apre l’ipotesi ad una moltitudine di effetti sulla narrazione e, probabilmente, anche sui finali di gioco. Nella speranza che non si banalizzi le premesse per trasformare il tutto nello scialbo finale di un Io, Robot a caso (il film ovviamente, non il racconto originale). Quel che è chiaro, tanto dal nostro giocato quanto dalla presentazione del personaggio di Marcus, è che sarà sempre e comunque il giocatore a poter decidere cosa fare e come farlo, demandando allo script il contesto, e ben pochi obblighi morali. Questo, almeno per quel poco che abbiamo giocato, significa però anche ritrovarsi a volte un po’ spaesati rispetto all’obiettivo finale, che è spesso chiaro (tipo: “salva l’ostaggio”), ma il cui conseguimento, lasciato nelle mani del giocatore, è a volte un po’ fumoso nel presentarci gli obiettivi intermedi. Intendiamoci non è un problema, ed anzi la spaesatezza non ha fatto che aumentare la nostra curiosità verso l’esplorazione ambientale, ma è ovvio che un intero gioco così potrebbe non essere appetibile, o leggibile, per tutti.
Per ciò che concerne il sistema di controllo, Detroit prosegue la linea già tracciata dai precedenti titoli Quantic Dream, cercando di trovare la sovrapposizione ideale tra i movimenti del nostro personaggio e quelli da compiere attraverso le leve e i tasti del nostro pad. Il sistema di emulazione fisica così architettato è, invero, non proprio pulitissimo e richiede, come era stato evidente già in passato, almeno un paio di tentativi per i movimenti più macchinosi. In linea di massima le azioni non sono neanche immediatamente evidenti, e questo è in parte colpa della telecamera che, per motivi che ci sono oscuri, è lenta e legnosa come poteva esserlo 20 anni fa. Diciamo subito che la demo da noi testata è datata e che comunque il titolo è ancora ampiamente in sviluppo, ma da questo punto di vista il gioco non ci ha colpito e, pur non avendoci frustrato, non sappiamo immaginarci quanto (e se) tutto questo possa funziona negli scenari di guerriglia urbana facilmente immaginabili seguendo la storyline di Marcus. A questo punto la domanda è: sarà il sistema di controllo, nella sua versione finale, capace di rendere il tutto funzionale e “pratico”?
Così com’è adesso Detroit: Become Human è una scommessa intrigante. I nostri iniziali dubbi rispetto alla bontà del tutto, complice il fiasco di Beyond (un fiasco di cui, viste le rivelazioni quasi in sordina, sembra ricordarsi anche Sony), non si sono completamente sciolti ma certamente diradati. A cornice di un comparto tecnico, come sempre, bellissimo e artisticamente asciutto ma funzionale, Detroit si prende la briga di rimettere in discussione alcuni dei canoni del suo genere di appartenenza, quello dell’avventura fortemente narrativa, proponendosi con un sistema di scelte e interazioni che, almeno nelle idee del team di sviluppo, dovrebbe costruire una impareggiabile concatenazione di eventi e variabili. La profondità dei temi affrontati, unita ad una certa fascinazione per la letteratura di genere rendono il tutto una sorta di “Blade Runner” interattivo. Con tutti i se e i ma del caso, ovviamente, ma non per questo meno attraente per la nostra immaginazione. Da preorder immediato? Forse no, ma sicuramente da seguire con ancor più attenzione che in passato. Preghiamo solo che, almeno stavolta, non ci siano passi falsi.