Probabilmente la migliore opera di David Cage
In passato la città di Detroit è stata teatro di grandi ribellioni, come la rivolta razziale del 1943, o la ancor più famosa “12th Street Riot“ del 1967. Inoltre, nel futuro del 2038, sarà terreno di scontro tra umani e androidi. Questo, almeno, secondo David Cage e il suo Detroit: Become Human. Si tratta del quinto titolo sviluppato dalla francese Quantic Dream, in arrivo il 25 maggio in esclusiva PlayStation 4.
“Get Your Today!”
Questo è uno degli slogan della CyberLife, azienda leader nella produzione di androidi. Nel 2038, infatti, la società si basa sul lavoro degli esseri artificiali, affinché gli umani possano dedicarsi esclusivamente al loro benessere. Ecco quindi che lavori come la receptionist, o mansioni come il fare la spesa, diventano prerogativa degli androidi.
Tale contesto potrebbe sembrare allettante, tuttavia sotto la luce della perfezione si nasconde un’ombra fatta di vizi, soprusi, ingiustizie. Detroit: Become Human ci porta all’interno di una società distopica, in cui povertà e disoccupazione sono in aumento poiché i posti di lavoro sono stati affidati agli androidi, portando strati della popolazione sull’orlo della miseria e della disperazione.
Tuttavia, l’aspetto più terrificante è il lato disumano che si palesa nell’uomo quando ha a che fare con un androide di sua proprietà.
Ma d’altronde, sono solo macchine, no?
Un paradosso dentro cui veniamo catapultati attraverso gli occhi artificiali di Connor, Kara e Markus.
Tre androidi, tre storie diverse
Connor è un modello avanguardistico, creato appositamente per fornire supporto alla polizia di Detroit nei casi di Devianti, ovvero androidi che si ribellano al loro programma e cedono al libero arbitrio.
Kara è invece una tipologia di androide dedita alle faccende domestiche. Essa è di proprietà di Todd, un uomo violento, alcolizzato e tossicodipendente. Nella casa, situata in uno dei quartieri più degradati della città, vive anche la piccola Alice.
Infine vi è Markus, androide acquistato per fare da assistente a Carl, un vecchio artista di successo costretto a stare sulla sedia a rotelle.
I tre contesti diversi, ovvero istituzionale, disagiato e altolocato, ci permettono di cogliere tutte le sfumature dell’atmosfera di gioco per favorire la nostra immedesimazione.
Un’immedesimazione che è esasperata dall’elevato grado di interazione che abbiamo. Chi è avvezzo alle produzioni di Quantic Dream sa infatti che il peso decisionale di noi giocatori è il fulcro dell’esperienza.
Detroit: Become Human non fa eccezione, mettendoci nei panni di tre personaggi simili tra loro nella struttura, ma completamente diversi non solo per le mansioni di cui si occupano, ma soprattutto per i sogni e le paure che nutrono.
Parlare di emozioni e androidi può sembrare strano, sebbene il confronto tra macchine senzienti e umani è un argomento parecchio trattato dalla letteratura o dal cinema. Eppure Detroit: Become Human porta il tema su un gradino più alto, grazie all’interazione tipica del videogioco e al sistema di scelte che regola il gameplay, portando il giocatore a vivere in prima persona una realtà futuristica ma verosimile nei panni di un androide. L’effetto è quello del pugno allo stomaco, associabile a Black Mirror, solo che, in questo caso, gli effetti della tecnologia e della disumanizzazione li viviamo sulla nostra pelle. L’aspetto interessante che è emerso dalla nostra esperienza con Detroit: Become Human è la sua capacità di far riflettere noi giocatori, non solo sulle conseguenze in game delle nostre scelte, ma soprattutto sulla nostra concezione di futuro, di civiltà, di vita.
Questa immersione è dovuta a tre fattori: il nostro potere decisionale, la caratterizzazione dei protagonisti, e la cura per l’ambientazione. Ogni dettaglio, dalle riviste disseminate in giro, all’androide Chloe che ci accompagna nel menù di gioco, serve a buttarci, quasi violentemente, nel mondo brutale di Detroit: Become Human. Un’atmosfera del genere è fondamentale per godere appieno delle storie vissute da Connor, Kara e Markus, ognuno dei quali si fa portavoce di un messaggio importante, che sfocia nell’esistenzialismo e nell’etica. Spetta esclusivamente a noi scegliere se mandare concretamente questo messaggio, e come.
Non vi sveliamo oltre, poiché, sebbene non siamo andati nemmeno oltre al prologo, per godere totalmente di Detroit: Become Human, che si basa sulla storia, preferiamo dirvi solo l’indispensabile sulla premesse narrative.
Ad ogni modo, probabilmente è grazie all’alto grado di immedesimazione che chiudiamo un occhio davanti ad alcune leggerezze narrative, individuabili soprattutto verso la fine.
E se…?
Le varianti di Detroit: Become Human sono davvero numerose e di impatto. Durante lo sviluppo, lo stesso Cage ha affermato che la sceneggiatura del titolo è stata tra i lavori più lunghi e impegnativi svolti durante la sua carriera di autore, arrivando a contare circa duemila pagine. Il risultato è un vasto ventaglio di opzioni, in cui è difficile non domandarsi “cosa sarebbe successo se?”, perché la caratterizzazione generale e la delicatezza dei temi trattati creano una narrazione fatta di adrenalina, amarezza, ma anche felicità e commozione. In breve, Detroit preme le diverse corde delle emozioni, e lo fa egregiamente.
Bisogna sottolineare che quando facciamo una scelta non influenziamo esclusivamente il nostro protagonista, ma diverse opzioni hanno conseguenze collaterali su diversi elementi: dall’opinione pubblica, ai personaggi secondari con cui ci approcciamo. Prima di compiere la nostra decisione, dobbiamo quindi capire che tipo di relazioni vogliamo intrecciare. Più accresciamo il rapporto con qualcuno, più aumentiamo la possibilità di sbloccare nuovi percorsi.
Le scelte non riguardano solamente le parole, ma anche le azioni. Con Connor, ad esempio, dobbiamo analizzare le scene del crimine e ricostruire l’episodio attraverso gli indizi individuati, mentre con Markus ci ritroviamo spesso a dover scegliere percorsi di parkour per far fronte a situazioni di pericolo. Niente di troppo complicato, tuttavia non è raro avere un tempo limitato per pensare, il ché mantiene alto il livello di tensione durante le fasi di dialogo.
Quanto al gameplay vero e proprio, esso si basa sui Quick Time Events. Dobbiamo prestare costantemente attenzione, perché una scena tranquilla può tramutarsi in un’azione concitata in cui dobbiamo premere velocemente sequenze di tasti. Vero è che sbagliare, anche più volte, non implica il Game Over e i motivi sono due: uno, perché non esiste il concetto di perdere in Detroit: Become Human; due, perché la difficoltà si mantiene su ritmi normali. Ciononostante, possiamo decidere se giocare in modalità esperto o principiante, ma la variante sta nel fatto che nel primo caso i nostri personaggi possono morire, mentre nel secondo no, così da goderci di più l’esperienza. Questo almeno è quello che dice il gioco, ma consigliamo vivamente la modalità esperto, perché la paura costante di poter perdere un nostro protagonista non fa altro che aumentare il nostro coinvolgimento.
L’esplorazione è invece ridotta all’osso, non solo perché spesso ci ritroviamo ad operare in ambienti chiusi e lineari, ma soprattutto perché non possiamo correre né camminare in maniera veloce. Sembra una cosa banale, ma a volte l’essere obbligati a passeggiare snerva, soprattutto in sezioni più adrenaliniche. A ciò aggiungiamo una telecamera non sempre perfetta e dei movimenti poco fluidi.
Qualora non fossimo convinti di una scelta, basta accedere al Diagramma della sezione conclusa e rigiocarla. Possiamo o sovrascrivere le vecchie scelte (consigliabile quando non siamo soddisfatti dell’andamento della storia), o giocare la porzione senza alcun salvataggio (nel caso in cui giochiamo per semplice curiosità). Più percorsi sblocchiamo, più punti acquisiamo. Tali punti possono essere spesi nel menù Extra, dentro cui troviamo contenuti aggiuntivi come video, interviste, artworks, colonna sonora. Tra questi ci sentiamo di dirvi che potete trovare la tech demo presentata da Quantic Dream nel 2012 su PlayStation 3, da cui è partita l’idea di Detroit: Become Human. È buffo notare l’incredibile divario grafico.
La bellezza dell’artificio
A proposito di componente grafica, anche in questo caso il lavoro svolto da Quantic Dream è eccellente. È vero che a volte capita di avere la sensazione di avere davanti linee troppo rotonde, levigate e apatiche, specie tra i personaggi secondari, ma in generale l’effetto è gradevole. L’espressività dei protagonisti è minuziosa, pronta a cogliere quel ventaglio di emozioni di cui parlavamo prima. Ancora una volta la produzione fa affidamento alla più elevata forma di Motion Capture, in grado di carpire i movimenti impercettibili del viso. Ecco perché in Detroit uno sguardo vale molto più di una parola, ed è importante godersi anche gli attimi di silenzio. Considerando poi che i personaggi prendono movimento grazie ad attori professionisti, tra cui menzioniamo, per la gioia delle fan di Grey’s Anatomy, Jessy Williams nei panni di Markus, l’effetto finale non può che essere positivo.
Anche gli ambienti sono curati nei dettagli, soprattutto perché caratterizzati da una sistema di illuminazione pregevole e adatto in ogni situazione, in grado di enfatizzare l’immersione nell’atmosfera di gioco.
Parlando di coinvolgimento, le musiche giocano un ruolo fondamentale. Esse sono state composte da Philip Sheppard, e non fanno altro che accrescere il pathos nelle varie situazioni vissute. Difficile che rimangano in testa, tuttavia l’apporto della musica è indubbio per quel che riguarda l’immedesimazione.
Verdetto
Detroit: Become Human è, probabilmente, la migliore opera di David Cage. Non una, ma tre storie vissute con Connor, Kara e Markus, l’uno diverso dall’altra, che riportano in auge un tema dibattuto come lo scontro tra androidi e umani. Lo fa perché sfrutta appieno la peculiarità del videogioco, ovvero l’interazione, catapultandoci, quasi bruscamente, all’interno delle dinamiche di gioco. Mai come prima le scelte hanno un ruolo fondamentale, visto l’ampio specchio di possibilità che ogni decisione presa apre.
Al di là di una storia ricca di colpi di scena, e costellata da personaggi carismatici, il vero punto di forza di Detroit: Become Human è l’atmosfera di gioco, curata in ogni suo dettaglio, tra i quali svetta il menù di gioco guidato dall’androide Chloe.
Occorre precisare che se non siete avvezzi a una tipologia di gioco improntata sulla trama e non sul gameplay, lasciate perdere. Le opere di Cage e di Quantic Dream, a causa della loro natura ibrida che trae tanto dal cinema, vengono spesso incomprese da chi cerca un’esperienza dinamica e improntata più sul gioco. Tuttavia, se cercate una storia profonda e riflessiva, in cui buttarsi a capofitto, non perdete questa occasione.
I difetti non mancano, poiché in alcuni tratti assistiamo a superficialità narrativa, mentre nelle fasi di gameplay la telecamera non è ottimale e non si può correre, ma niente che infici troppo l’esperienza. Perdoniamo infatti le varie sviste, poiché Detroit: Become Human è uno di quei pochi titoli in grado di far avverare la seguente scena: giochiamo, ci lasciamo appassionare, spegniamo in seguito la console, e poi restiamo fermi e ripensare a quanto vissuto su schermo.
Non è cosa da tutti i videogiochi. Per cui, se siete in cerca di un’esperienza matura e travolgente, attendete con ansia il 25 maggio.