Un lunedì di fine novembre, il cielo sopra Roma è scuro. Bernardo Bertolucci è morto.
Da tutti salutato come l’ultimo Maestro del cinema italiano o – volendo giocare al gioco delle citazioni – “L’Ultimo Imperatore”, Bertolucci è il regista più famoso e forse meno compreso di tutta la nostra Storia.
La sua filmografia è stata perennemente oggetto di controversie, quasi sempre più che giustificate da uno spirito libero, puro, con cui parlava di sesso, politica e di rivoluzione. Raccontava storie di scoperta, in cui sono esplosi alcuni dei più grandi divi di Hollywood. Con lui hanno esordito Liv Tyler, Eva Green e hanno trovato la loro dimensione più autoriale icone del calibro di Gerard Depardieu e Robert De Niro. Colto, esteta, raffinato, la sua narrazione della bellezza è stata raramente raggiunta dai suoi successori e ha impartito una lezione impietosa, definendo un periodo del cinema italiano che non è più possibile replicare.
Nato nel 1941, il Maestro muove i primi passi nel mondo della settima arte grazie a un vicino di casa d’eccezione, la cui cifra stilistica ha influenzato la sua opera d’esordio. Parliamo niente di meno che di Pierpaolo Pasolini, che colpisce a tal punto la fantasia del giovane Bernardo da distoglierlo dagli studi di Lettere con cui seguiva la strada del padre, il poeta Attilio Bertolucci. Sul set di “Accattone” del 1961, il ventenne romano assorbe quell’occhio neorealista e quella forte propensione al racconto della politica per immagini di Pasolini e porta queste suggestioni ne “La commare secca” del 1962.
Se, però, avesse sempre e solo seguito la strada del suo mentore, probabilmente Bertolucci non sarebbe mai diventato l’autore che oggi possiamo ammirare: la sua scansione della storia diventa presto più riflessiva, il suo occhio si rivolge all’individuo e non più (o non solo) alla massa popolare. La sua diventa una ricerca sui cambiamenti che attraversano l’Italia e il mondo intero di quegli anni e sulle risposte che le persone comuni danno alle spinte reazionarie che vorrebbero ancorarle allo status quo.
Leggiamo in quest’ottica il successo di “Ultimo tango a Parigi”, diventato celebre per motivi ben più torbidi e carnali. La sofferenza delle anime dei due protagonisti trova risposta in una sessualità rabbiosa, in una relazione alienante in cui il desiderio è l’unica possibile via di fuga in una società conformista e – appunto – castrante. Davvero un peccato che quello che è rimasto ai più sia un’alternativa casearia ai lubrificanti. La pruderie sfidata da Ultimo tango ha portato il suo regista ad affrontare un processo per oltraggio al pudore, che l’ha – però – consacrato come autore culto di tutta la cinematografia internazionale di allora e di sempre.
Se riflettiamo oggi su quel film e sul lascito che ha avuto nell’immaginario collettivo (per chi l’ha visto e chi non l’ha visto ancora) possiamo comprendere – forse – quanto Bertolucci non sia stato all’avanguardia solo per quel maledetto 1971, ma quanto lo sia ancora oggi.
Nel sentirlo parlare dei suoi film, l’ascoltatore abbatteva qualunque presunzione di provocazione fine a se stessa. No, Bertolucci non indugiava mai nel puro autocompiacimento: era, anzi, di una libertà espressiva e di una precisione del messaggio oggi probabilmente impraticabili. Ma d’altra parte non è questo il destino dei simboli, quello di essere fraintesi?
Un’intenzione forte e chiara è invece al centro di quello che forse è il capolavoro più ambizioso e sfrenato di Bertolucci: “Novecento”. Il film, che di solito è proposto in due atti, dura la bellezza di 310 minuti (che dicevamo a proposito di una libertà oggi impraticabile?) e racconta la storia dell’ascesa e della caduta del Fascismo in Italia a partire dall’alba del Secolo breve.
Il tono del racconto è deciso e lapidario: il Ventennio è denunciato come Il capitolo più buio di tutta la Storia italiana, così come i suoi promotori sono descritti senza troppe remore come violenti, ignoranti, vili e approfittatori. Attraverso un profondo ritratto dei moti popolari di Resistenza delle campagne emiliane, Bertolucci affresca un ritratto della dignità e dell’eroismo che in Olmo (Gerard Depardieu) e nei suoi compagni trova la sua più alta espressione. Così come è entrata nei programmi scolastici la lettura de “I promessi sposi”, “Novecento” dovrebbe essere adottato nella formazione dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze, come lezione imprescindibile di Storia e coscienza politica. Ma, purtroppo, questa è un’utopia.
Pur raccontando una storia di strettamente legata al nostro Paese, Bertolucci con “Novecento” aggiunge un tassello fondamentale alla costruzione della sua fama mondiale, aprendo la strada a produzioni sempre più grandiose. Il Maestro esplora così il continente asiatico e tutto il suo patrimonio storico e culturale con “L’ultimo Imperatore”, pietra miliare del cinema degli anni Ottanta che gli è valso persino l’Oscar come miglior film, onore mai (più) ceduto dagli americani a un regista italiano.
Il resto è storia più o meno recente. Probabilmente il film che ha più colpito la fantasia delle ultime generazioni è “The Dreamers”, una rivisitazione del tema della rivoluzione sessuale narrato attraverso il corpo dei tre giovani e meravigliosi Michael Pitt, Louis Garrel e Eva Green. Strizzando l’occhio alla nouvelle vague, il regista dà una nuova versione al tema della scoperta del proprio eros già proposta in Ultimo tango, accompagnando i protagonisti in un viaggio politico verso l’appropriazione totale di sé, in un trionfo pittorico di Arte, Amore e Rivoluzione.
Non avremmo sprecato parole tanto entusiaste per un regista meno esemplare e classico, nel senso migliore del termine. L’invito è ad esplorare la sua poetica e di lasciarsi prendere da un cinema unico e, lontani da una nostalgia unicamente intellettuale, scoprire l’attualità del suo stile e dei suoi contenuti.