Da contenitore di storie a spettro delle disabilità: serie, sitcom e il caso Atypical nelle serie TV
Tra i primi scopi della TV in tutto il mondo c’è la declinazione educativa. Il nuovo mezzo di comunicazione, che ha iniziato ad occupare le stanze di alcune case lì nel suo anno di nascita, per poi espandersi negli anni in ogni abitazione a macchia d’olio, aveva la capacità di poter imporsi frontalmente ai propri spettatori e approcciarsi a loro ponendosi come vero e proprio interlocutore.
Programmi per imparare a scrivere, per migliorare nella lettura, un’alfabetizzazione privata eppure collegata al resto dell’etere televisiva per migliorare le condizioni sociali e culturali del proprio pubblico. Ma i tempi cambiano e i media insieme a loro.
Da tv pubblica, da contenitore di messaggi comunitari che potessero contribuire alla formazione dei propri spettatori, il piccolo schermo diventò terreno sempre più settoriale, diviso in compartimenti stagni dove ogni canale e, con l’arrivo della televisione privata, ogni rete via cavo indirizzava i propri prodotti, riferendosi a un pubblico ogni volta ben individuato. È così che nascono le grandi narrazioni televisive, dove è lo spingersi oltre a conquistare la fascinazione dei nuovi fedeli seguaci, con cui la televisione comincia a fare pratica per poter sostenere il suo rivale naturale cinematografico.
In quel marasma di idee produttive per accattivare con sangue e violenza il pubblico generale, dove gli antieroi erano diventati il “must have” per poter portare avanti progetti e storyline, una scia di quel principio iniziale è rimasta negli anni per alimentare le possibilità didattiche e edificanti di film, serie tv e programmi eventuali, andando sempre più delineandosi e migliorando se stessa, mantenendo quel giusto appiglio istruttivo, rendendolo tutte le volte più sottinteso alla propria storia.
La crescita della diversità e della sua esplorazione
È così che, nella contemporaneità seriale tra canali satellitari e piattaforme streaming, l’universo educativo dei prodotti televisivi ha saputo arricchirsi di una catalogo in crescita esponenziale, di un livello qualitativamente tale da collocarsi nelle file dei migliori prodotti rilasciati durante il loro arco stagionale.
E quale argomento più scottante e insieme delicato se non quello della disabilità? Un universo peculiare, estremante difficoltoso da poter approfondire, nonostante le illimitate opportunità che la dimensione immaginifica della tv (e del cinema) può donare. Se il prendere da problematiche reali può rivelarsi la maniera corretta da integrare poi a condizioni di riscrittura e di elaborazione dei vari racconti, è il rischio continuo di infrangere ben due aspetti inviolabili per il rispetto del tema su cui devono costruirsi la storie da trattare.
C’è, prima di tutto, il bisogno di assicurarsi il delineamento più corretto con cui approcciarsi alla suddetta disabilità e, secondo poi, il coraggio di poterne affrontare ogni singolo aspetto che va circoscrivendola.
Questo significa certo il portarne dietro una carica apparentemente drammatica, che sembra a volte doveroso dover sostenere, ma viceversa prospetta la necessità di mostrare come qualsiasi declinazione di diversità tra individui può essere superata se si arriva al cuore primo di ogni rivelazione: ossia che, in fin dei conti, viviamo tutti gli stessi sentimenti.
Prima di Atypical: da Glee a The Good Doctor, tra canto e medicina
È con una serie di personaggi secondari che le serie tv hanno cominciato ad inserire le autenticità della disabilità all’interno delle loro vicende. Era in un gruppo già in partenza di disadattati in cui andava collocandosi un Artie Abrams in sedia a rotelle, tra le voci principali del glee club della William McKinley High School, che in Glee esplorò le pulsioni giovanili di un ragazzo paralizzato, ma non per questo costretto a rinunciare ai suoi desideri canori e amorosi.
Senza dimenticare la Becky Jackson di Lauren McKinley, personale referente della “villain” Sue Sylvester nella serie ideata da Ryan Murphy, la cui Sindrome di Down non le impedisce di esprimere tutta la sua meschinità e quell’ostentato atteggiamento da diva che ne sdoganò il pietismo e l’irreale convenzionalità.
Continuando la propria crescita personale, la serialità ha deciso di ampliarsi ancora di più nella scelta delle proprie rappresentazioni e dei suoi racconti, tanto da rendere quei personaggi in secondo piano i protagonisti indiscussi di prodotti tv di punta, generando un consenso omogeneo da parte di pubblico e critica, grazie alla capacità di saperne esplorare quel lato della loro storia che per troppo tempo era rimasto velato.
È così che la diramazione diventa più definita: se da un lato le serie tv cercano comunque l’introspezione più intima, come nel dramma medico The Good Doctor, è nella sfera delle sitcom che i diversamente abili permettono di giocare con la propria disabilità, di investigarne l’interiorità, ma rendendosi in primis promotori di una facoltà che ci accomuna tutti: saper ridere di noi stessi.
Sitcom e disabilità: con Special e Atypical anche ridere è possibile
Se alcuni tentativi come Speechless non hanno raggiunto l’apprezzamento e la diffusione necessaria, sono gli esperimenti di Netflix ad aver esteso le occasioni di narrazione, puntando su protagonisti che presentano la loro ordinarietà attraverso i differenti tipi di disabilità. Una gestione della leggerezza che non vuole essere – e non è – mai alternativa superficiale, ma esempio concreto di una consuetudine di cui è bene rendere partecipi gli spettatori.
Un’apertura che ha permesso a Special, tratta dal libro tra il romanzato e l’autobiografico I’m Special: and other lies we tell Ourselves di Ryan O’Connell, di mettere alla prova un giovane gay trentenne con una paralisi celebrale nella sua personale serie tv. Non solo, quindi, autore, ma anche attore principale per un progetto da otto puntate che lo vedono affrontare la propria vita perseguendo i ritmi della sitcom, dove la ricerca dell’amore, del sesso e dei sogni lavorativi non possono essere ostacolati dalla propria disabilità.
E, ancor di più, che ha reso Atypical una delle serie più seguite della piattaforma streaming, partita nel 2017 con la sua prima stagione, giunta ora alla terza, e concentrata sull’autismo ad alto funzionamento del suo protagonista Sam.
Il caso Atypical: come una serie sull’autismo può diventare un successo
Più di qualsiasi altro prodotto d’oggi – al cui pari va disponendosi soltanto il tono meno da comedy di The Good Doctor -, la serie della creatrice Robia Rashid ha saputo porre lo spettatore in una condizione di ascolto e attenzione verso il personaggio interpretato da Keir Gilchrist. Da qui la sua capacità di educare sfruttando la possibilità della risata.
Sam non è solo il personaggio principale di una serie che vuole indagare la quotidianità di una famiglia alle prese con un ragazzo autistico. Atypical ha saputo collocarsi nel panorama della serialità come un prodotto che accompagna il pubblico nell’entrare in contatto con gli atteggiamenti e le problematiche del ragazzo.
Non collocando lo spettatore solo come osservatore degli accadimenti, ma permettendogli di comprendere che, nelle dissimili esposizioni delle emozioni e dell’empatia del protagonista, è sempre possibile ritrovare parte di ogni essere umano. Una formazione che non vuole Sam conformarsi alla norma, ma vuole che sia la norma a capire che nel mondo gli spettri che lo compongono possono essere infiniti e ogni volta diversi l’uno dall’altro.
Continuare ad apprendere, a divertirsi, ad emozionarsi
Cercando di interrogarsi su cos’è l’amore, affrontando le relazioni famigliari e extra-famigliari, confrontandosi con pulsioni interiori che è bene tirare fuori, Atypical ha fatto dell’autismo la chiave per una serie che intrattenesse con la libertà del disimpegno, senza fini provocatori né forzature dovute a bisogni ed escamotage di sceneggiatura. Una serie che ha saputo sottolineare il buffo lì dove era possibile sottolinearlo e che ha preso seriamente quei disordini lì dove era opportuno esaminarli.
Nell’affezionarsi al personaggio di Sam, e dando la stessa attenzione al resto dei caratteri che vanno assemblando la sua cerchia di conoscenze, la serie ha ricoperto una vena pedagogica a cui la tv è spesso portata, non forzandola però mai nel cercare pedissequamente la verità, ma giocando di quella verosimiglianza che è ciò che ci fa appassionare alle storie e di cui film e serie tv vanno alimentandosi.
Un modo per divertirsi e apprendere, svagarsi pur guidati giudiziosamente. È la qualità coscienziosa di progetti che hanno trovato il corretto equilibrio tra il rispetto della disabilità e il loro volerne mostrare ogni faccia. E, tra tutte, preferendo quella più allegra e educativa.