Fantasia, fantasia canaglia!
C’è una regola non scritta nel fantasy. Basta poco per trasformare tutto in una farsa, nel bene e nel male. Può capitare infatti di sbagliare qualcosa, creare per errore dei personaggi stereotipati, realizzando un lavoro di scarso o nullo valore.
Oppure si può farlo apposto. E il risultato finale è a dir poco magnifico. Questo è Matt Groening prestato al fantasy, signore e signori.
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Al momento dell’annuncio di Disincanto i dubbi c’erano ed erano legittimi. Da anni i Simpson sono in fase calante, e pure le ultime stagioni di Futurama sembravano aver mostrato segni di stanchezza. L’idea che Neftlix e il genio creatore di Springfield e della Planet Express potessero collaborare per una nuova serie quindi era stata accolta con la giusta curiosità e attesa, ma ancora con qualche piccolo dubbio. Ma mettetevi comodi, rilassatevi sul vostro divano e buttate giù la fatina contenuta nel vostro bicchierino di assenzio: Disincanto è una serie riuscita. Ma non nel modo in cui potreste pensare voi lettori.
Ubriacona, strafatta e incontrollabile. Ma ha anche dei difetti.
Già dai trailer avevamo la certezza che la protagonista di questa nuova serie targata Groening non sarebbe stata la classica donzella in pericolo. Bean è in effetti esattamente come ci era stata presentata, un’incontrollabile fonte di problemi per suo padre, re Re Zøg, e per l’intero regno di Dreamland.
La storia inizia come molte altre storie fantasy: è il grande giorno in cui la principessa incontrerà il suo sposo, ma la dama è sparita. Il motivo? Si è andata a nascondere in una bettola dei bassifondi per ubriacarsi e giocare a carte, partita che si concluderà con una classica rissa capace di coinvolgere tutti gli avventori. Tornata al castello la ragazza trova un misterioso pacco regalo, al cui interno trova ad aspettarla Luci, un demone che da quel momento in avanti la tormenterà per mandarla verso la strada sbagliata. Non che Bean ne abbia bisogno, ovviamente, ma una piccola spintarella può essere molto utile in questo senso.
Nel frattempo, in una foresta incantata, un piccolo elfo si sente infelice. È diverso da tutti i suoi simili, non vuole passare il tempo a cantare alla catena di montaggio dei dolciumi e il suo unico desiderio è quello di poter assaporare sensazioni diverse. Il suo nome è… be’, è Elfo! La sua fuga da Elfwood avrà ripercussioni impreviste sul matrimonio della principessa Bean e sull’intera vita di Dreamland in un modo che nessuno potrebbe prevedere.
Tra quelle componenti che funzionano meglio in Disincanto ci sono senza dubbio i personaggi. Bean è un perfetto esempio della filosofia di questo show, una presa in giro realizzata splendidamente dell’archetipica “donzella in pericolo”, quel tipo di principessa che sì, si mette nei guai da sola, ma è anche capace di tirarsene fuori. Il personaggio di Bean dimostra però una complessità maggiore di quanto fosse prevedibile. La ragazza soffre il peso della sua posizione, l’assenza della figura materna e il distacco di quella paterna. Le scorribande alcoliche accompagnate da un demone e un elfo appaiono quasi una conseguenza inevitabile della cosa. A questo si aggiunge la sua incapacità di trovare un posto in un mondo che non sembra darle molte scelte, se non quello di essere sposa e madre di qualche principe straniero e oggetto di un’alleanza.
Accanto a lei trova un posto di rilievo Elfo. La piccola creatura sembra essere uno dei punti di forza dello show. La sua ingenuità nei confronti del mondo e il contrasto che si crea tra le sue aspettative e la realtà che lo circonda regala alcuni dei momenti di maggiore divertimento della serie. E per finire Luci, a cui spetta il ruolo di “adorabile mascalzone” che in Futurama spettava a Bender. Il demone sotto certi aspetti sembra il meno riuscito del trio, non avendo lo spessore psicologico di altri personaggio. In fondo da un demone non puoi che aspettarti che sia malvagio, ma il suo ruolo, quello di canaglia pronta a commentare la situazione con una battuta salace, lo riesce a svolgere bene. Forse troppo bene, dato che sembra molto difficile riuscire a far uscire Luci dal personaggio che gli è stato cucito addosso.
Uno dei punti di forza della serie è quello della forte caratterizzazione dei personaggi secondari. Dopotutto è un vecchio pallino di Groening quello di rendere le sue serie qualcosa di corale, uno spettacolo che non sia semplicemente agganciato al traino dei protagonisti. E ci riesce donando ai comprimari delle caratteristiche in grado di renderli a modo suo unici. Capita spesso di potersi fare una risata di fronte a re Zøg, al mago di corte o alle guardie di palazzo. Su ognuno di loro viene cucito il giusto personaggio e a ognuno viene data la giusta dimensione per poter spiccare, nelle propria nicchia, all’interno dello spettacolo. Siamo ancora distanti da un Boe o da uno Zapp Brannigan, ma per ora possiamo ritenerci soddisfatti. Se la serie avrà successo non è da escludere che possa mostrarci qualcosa in più del caleidoscopio di personaggi che animano Dreamland.
Tra questi è soprattutto il re di Dreamland, doppiato dalla garanzia John Di Maggio, ad aggiudicarsi la palma di comprimario più riuscito. Sin dal suo aspetto, modellato sulle fattezze del suo doppiatore, il personaggio riesce a suscitare la giusta dose di interesse e ilarità nello spettatore, riuscendo a rivelarsi col passare del tempo complesso e profondo quanto basta per farlo apprezzare.
Bart, Bender e Bean
Parlare di Disincanto ci costringe a un paragone inevitabile con le precedenti produzioni di Matt Groening. Difficile liberarsi dello spettro incombente dei Simpson e di Futurama mentre si guarda questo spettacolo. La domanda che tutti ci siamo posti è se Disincanto ci avrebbe fatto ridere quando le altre produzioni di Groening. Lo risposta? No.
Ma badate bene, la cosa non deve essere percepita come un fallimento dell’autore e della serie in sé. Si tratta di qualcosa di molto diverso rispetto ai Simpson e a Futurama, qualcosa che va contestualizzato spazzando via paragoni scomodi.
Se le disavventure della famiglia gialla più amata di Springefield e quelle della ciurmaglia agli ordini del professor Farnsworth avevano l’intento di intrattenere con la risata, sfruttando una feroce satira politica e sociale, non altrettanto si può dire di Disincanto. Lo scopo principale della serie, certo, è divertire e intrattenere, ma non per forza di cose in maniera esclusiva attraverso la comicità e la risata.
La grande differenza con gli altri lavori di Groening consiste nell’orizzontalità della trama, tipica delle produzioni Netflix. Le altre opere si basavano, salvo rare eccezioni, sulla modularità, dando ai loro protagonisti un’avventura diversa ogni settimana. Venuto a mancare questo concetto Disincanto non ha come unico interesse quello di far divertire lo spettatore, bensì quello di narrare una storia o, per meglio dire, un percorso.
Perché il fondo è pur sempre di una storia fantasy che parliamo, e non ci sarebbe una storia fantasy senza la giusta dose di avventura e azione, ovvio, ma soprattutto senza un protagonista di cui dobbiamo seguire il cammino, costellato di fallimenti (tanti, nel caso di Bean, accompagnati da droghe e alcol) e redenzione (ma chissà se sarà davvero tale). E il percorso della principessa alcolizzata è segnato dalla necessità di trovare un proprio posto nel mondo, capire quale sia il proprio destino e il proprio scopo, in barba a tutte quelle convenzione che avrebbero già deciso tutto per lei.
In questo Matt Groening spiazza tutti i suoi spettatori con un colpo di genio: chi si aspettava una serie esclusivamente basata sulle risate potrebbe restare deluso, certo. Ma d’altro canto ci troviamo di fronte alla necessità di narrare una storia, un racconto che quindi non può essere semplicemente sacrificato sull’altare della commedia. E, in questo, Disincanto riesce a creare una storia con il giusto pathos, il racconto di una persona, come tante nel nostro mondo, che vuole forgiare da sé la propria vita e che combatte con le unghie e con i denti (e che denti!) per poterlo fare.
Disincanto appare quindi come un’evoluzione naturale, un esperimento riuscito di quella che è la vena artistica di Matt Groening. Una narrazione che si snoda in dieci episodi ben strutturati, per niente scontati o banali, che nonostante una certa lentezza iniziale riescono comunque a smuovere l’attenzione dello spettatore. Il tutto accompagnato da diverse strizzare d’occhio ai tópoi del genere fantasy, riscritti in maniera tale da riuscire a ironizzare su un genere che troppo spesso, per la pigrizia di certi suoi autori, presta il fianco a critiche e a scelte di trama semplicistiche.
Vedere Elfo lamentarsi di dover essere felice per l’imposizione di un’autorità superiore è di per sé illuminante: perché è necessario essere sempre circoscritti a ciò che ci richiede la tradizione? E, in questo, Bean riesce a rincarare la dose a viva forza, così come fanno poi gli altri personaggi. Vedere una fatina che “batte” la foresta in cerca di clienti, protagonisti di fiabe famose ormai impazziti e ridotti al cannibalismo, reali incestuosi e principi vanesi che si infilzano su un trono di spade è una regola a cui è bene abituarsi quando si ha a che fare con Disincanto. Una regola che, per gli amanti del genere, costituisce la marcia in più dello show.
Verdetto
Disincanto è una seria destinata a deludere parte del pubblico. Non si ride quanto ne I Simpson o in Futurama, e i tempi comici appaiono talvolta sacrificati ai fini della trama. Nonostante questo ci troviamo di fronte a una storia di crescita, un percorso che viene sostenuto da un’ambientazione e dei personaggi ben strutturati e capaci comunque di donare risate e divertimento. Ci troviamo di fronte alla naturale evoluzione dell’autore, a quella che potremmo interpretare come la volontà artistica di cambiare il proprio stile e rinnovare la propria idea di fare spettacolo. Se siete disposti a dimenticare ciò che pensavate delle opere di Matt Groening, se amate il genere fantasy al punto da apprezzarne una sana critica, allora Disincato è quello che fa per voi.