Negli ultimi anni la distopia sta riscuotendo un successo sempre crescente. Ma stiamo davvero parlando di distopia?
Chi non ha messo le mani (o gli occhi) su una bella distopia ultimamente? La distopia negli ultimi dieci-quindici anni è diventato un genere accettato dalla cultura mainstream, e l’uso dell’aggettivo “distopico” non spaventa più chi scrive le fascette dei libri o le descrizioni dei film in streaming. Eppure, proprio questa diffusione sembra aver snaturato da una parte il senso della stessa parola “distopia”, rendendolo più vago e sbiadito, un non-genere capace di contenere storie che a ben guardare di distopico hanno poco o nulla. Proviamo a fare mente locale e stabilire cosa si intende per distopia e perché questo termine viene sempre più spesso usato a sproposito.
“Non è solo distopia”
Senza addentrarsi troppo nelle origini storiche del genere, si può semplificare dicendo che la distopia nasce in contrapposizione all’utopia. Nel momento in cui le previsioni positiviste sulle sorti dell’umanità hanno iniziato a vacillare, l’idea di un futuro non proprio ideale si è fatta più concreta e la narrativa si è adeguata confezionando storie che ipotizzavano questo tipo di sviluppo. Vale la pena ricordare comunque come l’utopia stessa non fosse un semplice sogno a occhi aperti della migliore società possibile, ma che piuttosto era spesso usata come strumento di satira nei confronti del potere in carica.
Con l’evolversi della narrativa commerciale e la codifica di confini tra i diversi generi, la distopia è stata tradizionalmente posizionata all’interno della fantascienza: trattando infatti delle possibili evoluzioni della società, si colloca a buon diritto all’interno di quella narrativa speculativa che cerca di indagare le possibili conseguenze di sviluppi scientifici e sociali. Non sono rari infatti i casi di distopie basate sull’introduzione di particolari tecnologie o sulle conseguenze di innovazioni nei rapporti sociali.
È successo però che alcuni grandi classici della distopia (e la menzione scontata è per 1984, Il mondo nuovo, Fahrenheit 451) facessero presa su critica e cultura e finissero così per essere isolati dal più ampio contenitore della fantascienza a cui appartenevano. Per quello strano fenomeno per cui se un libro di fantascienza con qualità letterarie “non è solo fantascienza”, per molti la distopia vive come un genere a sé, forse per la sua più esplicita componente politica che la fa assimilare a letteratura più “impegnata”.
Il peggiore dei mondi possibili?
Ma indipendentemente dalla sua classificazione, quali sono i caratteri fondamentali della distopia? Per essere inquadrata come distopica, una storia deve essere ambientata in un qualche tipo di società distorta, in cui alcuni aspetti poco desiderabili che già si trovano nel mondo sono esasperati e costituiscono la base stessa del potere. Razzismo, sessismo, classismo, fondamentalismo religioso, consumismo, capitalismo, complottismo, scientismo: tutti questi -ismi sono materiale valido per l’impostazione di una società distopica, che di solito prevede l’imposizione di questi valori a tutta la popolazione e un severo controllo affinché nessuno si discosti dai precetti del regime.
Ma perché la storia sia una distopia, c’è bisogno che l’elemento costitutivo della società sia il nucleo stesso della vicenda, ovvero che tutta la narrazione ruoti intorno al funzionamento di questo modello di società e (in genere) all’opposizione da parte di alcuni reietti.
Un’altra caratteristica fondamentale ma spesso trascurata è riassunta dall’adagio “l’utopia di qualcuno è la distopia di qualcun altro”. Questo significa che la distopia deve essere in qualche modo seducente: perché un sistema politico si instauri c’è bisogno infatti che ottenga un certo grado di consenso, e quindi è naturale che una parte (maggioritaria) della popolazione creda nei valori del regime. Una storia in cui l’Impero Del Male, Inc. ha conquistato il potere con la repressione e la violenza e mette a morte chiunque sbadigli non può considerarsi una distopia, perché è evidente che un tale sistema non potrebbe mai avere nessuno dalla sua parte.
Si può obiettare che la storia ha dimostrato che regimi del genere sono stati davvero capaci di arrivare al potere e mantenerlo per anni, ma come sempre la realtà dei fatti è diversa dalla realtà narrativa. Lo scopo di una distopia non è lo stesso del giornalismo d’inchiesta che si occupa di indicare le malefatte dei potenti, ma piuttosto quello di suggerire in maniera più sottile come ciò che per certi versi ci può sembrare giusto e auspicabile potrebbe diventare il cardine di un regime capace di privarci della libertà, magari con il nostro pieno sostegno.
In questo senso, come l’utopia ci mostrava il migliore dei mondi per evidenziare le differenze con il nostro, la distopia ci mostra il peggiore dei mondi per mostrarci le affinità con il nostro.
La distopia è roba da ragazzi
Uno dei fattori determinanti nell’affermazione della distopia negli ultimi anni è stato indubbiamente il successo delle distopie young adult. Se anche ci sono esempi precedenti, da Hunger Games in poi si è vista una vera e propria esplosione di storie di questo tipo. In certi casi l’ambiente letterario critica queste storie in quanto rivolte esplicitamente a un pubblico di ragazzi, ma in realtà questo aspetto è proprio quello che ha innescato l’affinità tra la distopia e lo YA.
Le storie young adult sono in sostanza storie di formazione di adolescenti che prendono coscienza del loro ruolo nel mondo. E quindi quale migliore contesto per esplorare l’angst adolescenziale che quello di una società repressiva? La battaglia del giovane protagonista contro il potere costituito rappresenta quella più universale dell’individuo per affermare la propria individualità nei confronti della famiglia e delle pressioni sociali in generale. Non si può quindi condannare come inappropriato il collegamento tra questi due ambiti della narrativa.
Il problema semmai è stata proprio la massificazione di questo tipo di storie, che ha portato inevitabilmente a un ribasso costante nella qualità e nella densità delle opere. Se Hunger Games si può ancora considerare una buona storia distopica, molti dei suoi emuli si limitano a descrivere le avventure di un gruppo di protagonisti in lotta contro un Impero Del Male, Inc. che ha ben poco di accattivante e non si capisce come eserciti il suo potere visto che tiene in prigione metà della popolazione mondiale. In questo caso si assiste spesso a una reductio ad hitlerum, quel cliché narrativo per cui i cattivi sono cattivi sotto tutti i punti di vista, incarnano tutte le paggiori caratteristiche dell’umanità e si configurano come una rappresentazione nemmeno tanto velata del nazismo hollywoodiano. Gli eroi quindi non possono fare altro che combattere visto che è in gioco la loro stessa sopravvivenza, e di conseguenza manca quella componente di seduzione che la distopia dovrebbe esercitare sui suoi cittadini.
Un altro punto di confusione che si ritrova spesso nelle distopie young adult (ma che poi si è diffuso anche a quelle “per adulti”) è la sovrapposizione fra distopia e postapocalittico: se è vero che da una devastazione globale si può innescare un regime distopico, non basta parlare di un mondo in rovina per ottenere la qualifica di distopia. Infatti un asteroide o un’invasione aliena, un collasso climatico o un attacco zombie non si possono considerare come mezzi tradizionali di costruzione di un sistema politico. Possono esserne la causa scatenante, ma non rappresentano di per sé la condizione sufficiente per parlare di distopia, che invece deve essere una scelta cosciente operata da una parte della società.
Se tutto è distopia niente è distopia
Quello a cui stiamo assistendo negli ultimi anni è appunto un annacquamento della definizione di distopia, con la quale si va a comprendere qualunque storia ambientata in un mondo che abbia caratteristiche meno che perfette. Anche se la trama è quella di un thriller investigativo in cui il detective dal passato turbolento deve scoprire chi ha ucciso la sua ex moglie, se sullo sfondo appaiono opacità nella gestione del potere da parte delle istituzioni, allora si appiccica già l’etichettà “distopia”.
Il problema è che con questo criterio tutto diventa distopia. Poiché non esiste a memoria d’uomo una società perfettamente equilibrata, tant’è che per immaginarle ci siamo inventati appunto l’utopia, va a finire che una qualunque storia ambientata in un qualunque periodo storico o mondo immaginario diventa una distopia. E se tutto è distopia, niente è distopia. Con questa definizione, si potrebbe parlare di distopia anche per X-Files, in cui un governo corrotto nasconde le informazioni ai cittadini; potrebbe essere una distopia Star Wars, perché l’Imperatore ha conquistato il potere e usa la forza per mantenere il controllo; e che dire del Signore degli Anelli, in cui il Signore Oscuro controlla la Terra di Mezzo grazie al potere dell’Anello?
In tutte queste storie è chiaramente presente un livello di conflitto tra gli individui e il mondo di cui fanno parte, ma questo è un elemento di base di qualunque storia. Si potrebbe in alcuni casi dire che certe opere hanno elementi di distopia, così come si può dire che abbiano elementi del thriller o del romance, ma una distopia vera e propria è quella che costruisce la storia proprio intorno all’idea di società disequilibrata in cui il potere si basa su valori distorti.
La distopia del Covid
Negli ultimi mesi la distopia è diventata un trending topic per via delle misure previste per contenere l’epidemia di Covid19. La parola “distopia” così si è affacciata nei titoli dei giornali, nei talk show politici e nei tweet dei capipartito. L’associazione è diventata immediata nel momento in cui le esigenze sanitarie hanno reso necessaria una (discutibile quanto si vuole) limitazione delle libertà personali.
Questo ha portato la distopia nel dibattito pubblico e ne ha ulteriormente snaturato il senso, perché è diventato argomento di attualità e soprattutto di campagna elettorale. È ancora troppo presto per dire se davvero il lockdown sia stato il primo passo per l’instaurarsi di una dittatura sanitaria, tanto più finché l’epidemia è ancora in corso in buona parte del mondo. Bisogna però rilevare come anche in questo caso la distopia sia stata utilizzata nella sua accezione generale e semplicistica di regime autoritario che controlla la popolazione con misure restrittive.
La verità è che, quando mai ci troveremo a vivere all’interno di una distopia, non ce ne accorgeremmo nemmeno. Anzi, probabilmente saremmo i primi a sostenere l’affermazione di questo Mondo Nuovo che non potrà che portare pace e prosperità.