Do not feed the monkeys è riflessione agrodolce sui nostri tempi
Negli anni lo spiare le vite degli altri da una posizione nascosta o privilegiata è stato a più riprese uno spunto interessante per riflettere sul ruolo dei diversi attori della struttura sociale e politica. Orwell con il suo 1984 è certamente l’esempio più noto, ma anche il cinema con Le vite degli altri di Florian Henckel von Donnersmarck ha esplorato la questione, per portare un altro esempio. Do not feed the monkeys, recentemente uscito su Switch ma già rilasciato su PC un paio d’anni fa, trasporta la questione ai giorni nostri, dove l’osservatore non è più il Potere in senso statale, ma l’uomo qualunque.
È semplice ovviamente fare facili riflessioni su come i social network o il reality televisivo abbiano stimolato in modo nuovo la voglia di osservare gli altri dal buco della serratura, concedendo a chiunque la possibilità di farsi gli affari degli altri in modo mai visto prima. Proprio su questo principio – ma in chiave quasi distopica – si basa Do not feed the monkeys, in cui è evidente come lo sviluppatore voglia portare avanti in chiave ironica e satirica un discorso sui nostri tempi, senza disdegnare riferimenti all’attualità.
Il discorso del gioco però non è semplice, e non si limita a fare blande e scontate riflessioni sui social network, ma anzi cerca di arrivare a un livello più profondo, mostrandoci come il tema affrontato sia un problema sistemico nei nostri anni, e come anche in questo caso ci sia un potere che continua a promuovere una “guerra tra poveri”.
Partiamo dall’inizio: all’avvio del gioco riceveremo una mail nella quale un gruppo che ricorda gli Illuminati o una qualsiasi loggia massonica ci comunica di essere entrati nel programma che ci permette di avere accesso a una serie di telecamere che spiano altre ignare persone. Possiamo guardarli, ma l’importante è non interagirci (da qui il titolo Do not feed the monkeys). La terminologia anche appare avere un ruolo fondamentale: le persone sono scimmie (monkeys), non bisogna “dargli da mangiare” e le varie telecamere che li osservano h24 sono chiamate gabbie.
Siamo in uno zoo.
C’è chiaramente un discorso sulla spersonalizzazione: quello che nel gioco si identifica come il Potere toglie personalità a chi spia, ma concede lo stesso potere anche a noi, che di conseguenza ne approfittiamo sentendoci più forti perché accostabili a chi ce l’ha concesso e non all’oggetto delle nostre osservazioni, che da nostro pari passa a essere il nostro svago.
Questo rapporto tra il singolo a cui viene concesso potere e il Potere stesso è il tema portante del gioco, e ci mostra come siamo pronti a cedere umanità in cambio del sentirci in posizione privilegiata rispetto a qualcuno.
Ma quanto costa, questa possibilità?
Do not feed the monkeys mescola all’osservazione delle “scimmie” elementi survival basati sul management di alcune risorse: fame, sonno e salute. Abbiamo bisogno di mangiare e di dormire, certo, ma anche cosa mangiamo è importante: vale la pena perdere un’ora di tempo per andare a comprare frutta e verdura invece di ordinare una pizza, meno salutare ma sicuramente più rapida ed economica?
Queste sono le scelte che dovremmo fare, e ben si mescolano con il discorso su quello che siamo disposti a sacrificare per poter investire la maggior parte del nostro tempo nell’osservare “le scimmie”.
C’è poi il bisogno di lavorare, perché le gabbie non sono gratuite, e per rimanere nel programma dobbiamo comprare sempre più gabbie a cadenza settimanale, o magari investire dei soldi per potenziare quello che abbiamo già. Il gioco è un vortice quindi, in cui cerchiamo di lavorare per poter sì campare, ma anche per poter foraggiare il nostro hobby e mantenere la nostra posizione privilegiata, cercando di scalare la piramide gerarchica dell’organizzazione che ci permette di avere qualcosa da osservare.
A questo punto è verosimile che vi siate posti una domanda: “ok, ma oltre a guardare questi sventurati ignari del fatto di essere ripresi, cosa si fa nel gioco, e soprattutto, perché?”
Ovviamente il suggerimento di non interagire con chi osserviamo significa quello che ci si aspetta: come ci interagiamo? Osservarle infatti significa studiarle, e studiarle significa, a un certo punto, decidere come comportarci. Il gioco si svolte per la maggior parte di fronte allo schermo di un pc dove abbiamo installata l’applicazione utile alle nostre osservazioni, ma c’è di più.
Abbiamo anche a disposizione un browser, dove possiamo cercare alcune parole evidenziate dette dalle nostre cavie per scoprire ulteriori informazioni sui soggetti, e un taccuino, dove queste parole evidenziate sono segnate e dove possiamo collegarle tra loro per effettuare delle deduzioni che poi potremo spendere quando, al termine di ogni gabbia, dovremo decidere come interagire con le scimmie stesse.
Potremo aiutarle, o approfittarci di determinate situazioni, o magari essere meschini grazie alle informazioni ricevute. Ogni gabbia ha diversi finali, e la struttura roguelike (per così dire) del gioco ci invoglia a rigiocare più e più volte per scoprire tutte le gabbie disponibili e i vari finali di queste, dal momento che all’inizio di ogni partita le gabbie verranno scelte a caso tra le diverse disponibili.
C’è quindi un importante fattore rigiocabilità, unito a una difficoltà piuttosto elevata di sopravvivenza in caso si scelga di giocare a difficoltà media. C’è poi anche una modalità facile, in cui vogliate osservare e non dover pensare eccessivamente al vostro benessere fisico.
Come vi sarà chiaro, Do not feed the monkeys è un gioco pieno di contenuti e soprattutto un titolo che porta con sé diversi messaggi su cui è importante riflettere. Sicuramente funziona meglio su PC, perché l’interfaccia su Switch non è il massimo, ma la possibilità di giocarlo in modalità portatile da una marcia in più al titolo. Qualsiasi sia la vostra piattaforma di riferimento però, se siete interessati a un certo tipo di videogioco indipendente, questo è un titolo da non lasciarsi sfuggire.