Non guardare in alto, perché hai già visto la cometa
The Big Short – La grande scommessa resta tutt’oggi uno dei film più affascinanti e interessanti degli ultimi dieci anni, quello in grado di farci apprezzare il cinema di Adam McKay, di cui poi ci siamo innamorati definitivamente con Vice (come scrissi in un articolo, nel 2019).
La grande scommessa era, e resta, eccezionale per svariati motivi, ma a stupirci fu soprattutto la sua capacità di essere un prodotto didascalico nel senso buono del termine, fornendo agli spettatori un enorme quantitativo di informazioni che probabilmente molti conoscevano solo in parte, ma rendendole altamente digeribili grazie ad alcuni espedienti, come un cast corale che sapeva funzionare alla perfezione, o affidando le spiegazioni, ad esempio, a Margot Robbie immersa in una vasca da bagno piena di bolle. E se la Robbie che, in queste condizioni, parla di crisi finanziaria non è una trovata geniale, ditemi voi allora cosa può esserlo.
Dal cast corale, McKay era poi passato alla visione di un singolo personaggio, ovvero il trasformista Christian Bale, nei panni di Dick Cheney, vice-presidente americano nell’amministrazione Bush – in Vice, appunto – ma funzionava ugualmente grazie ad uno script eccellente, a una regia illuminata, al talento di Bale e quello di Amy Adams che interpretava la moglie Lynne. E adesso riecco con Don’t Look Up, invece, il cast corale, di certo necessario per lo scopo di McKay in questo film.
Che abbiate visto o meno l’ultima fatica del cineasta di Filadelfia, è assai probabile che i vostri social, da Natale a oggi, siano stati un fiume di post e commenti riferiti a Don’t Look Up, sulla bocca e sulle tastiere di tutti, promosso a pieni voti dalla critica italiana ma non da quella americana.
Che negli States il giudizio sia diviso è più o meno comprensibile, vista la critica poco velata a un certo tipo di classe politica i cui elettori costituiscono circa la metà della nazione, e considerato il fatto che il film, perfettamente in linea con il mondo attuale, prevede due opposte fazioni con una divisione peraltro corroborata dalla comunicazione odierna.
Ci potremmo chiedere, e rispondere di conseguenza, perché lo stesso non sia avvenuto in Italia, ma il discorso relativo alla nostra critica è quanto mai spinoso e non siamo qui per parlare di questo. Ognuno tragga le proprie conclusioni.
Guarda in su, guarda in giù, dai un bacio a chi vuoi tu
Di certo quello che sembra fuori discussione è il fatto che ci stiamo sempre più rapidamente abituando alla mediocrità, e noi purtroppo ben più che gli americani.
Perché Don’t Look Up, parliamoci chiaro, è buon film, nato da un’ottima idea, ma niente di più.
Se pensiamo a Il Dottor Stranamore, al modo in cui Kubrick oltre 50 anni fa sapeva descrivere la fine dell’umanità e poi volgiamo lo sguardo al film di McKay ci rendiamo conto di quanto siano distanti.
Lungi da me supportare la retorica populista del filone “ieri era meglio di oggi”, poiché col tempo sono anche migliorate molte cose, non soltanto grazie alla tecnologia, ma mi riferisco pure alla preparazione degli attori o del cast tecnico, e infatti di registi in grado di sorprenderci ancora in positivo ci sono, con McKay che resta uno di questi dati i suoi precedenti lavori, eppure mi domando perché la stragrande maggioranza della gente lo stia scoprendo proprio con questo film.
Per il messaggio che lancia? Il problema a me sembra proprio quello, e chiaramente non per il messaggio in sé, ma per il fatto che ci dice cose che conosciamo (o dovremmo conoscere) molto bene e usa in modo inefficace l’ironia.
Big Short fa pensare molto di più, e l’irriverenza di fondo è incostante non permettendoci di distaccarci da quello che il film racconta. Don’t Look Up usa invece il cast corale, con interpretazioni indubbiamente eccellenti (ed era ovvio anche questo, visti i nomi), per intrattenere, finendo vittima di un paradosso e reiterando sostanzialmente un unico messaggio per oltre due ore, facendo perdere un bel po’ di mordente al film. Mi sembra davvero incredibile che tra i momenti migliori prevalga l’ironia fine a se stessa, con scene indubbiamente divertenti affidate quasi sempre a quel fenomeno di Jonah Hill.
Se si vuole portare ulteriormente l’attenzione sull’urgenza delle questioni legate al cambiamento climatico, non credo sia utile che Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence) urli la verità allo schermo verso di noi, affermando l’ovvio come se fossimo tutti troppo sciocchi.
Non credo neppure che ricordarci che la celebrity culture, incarnata dal personaggio di Riley Bina (Ariana Grande), ci distolga da attenzioni più importanti cambi effettivamente qualcosa, ma suona come retorica ridondante e sterile.
Sottolineare, infine, che lo scopo dei media sia la propria sopravvivenza e quindi lo share e i mezzi con cui si raggiunga ciò valgano più della verità, affidandosi poi alla macchina della comunicazione di massa per cercare di veicolare le informazioni e mutare l’opinione pubblica è una ridicola contraddizione.
Il film è per lo spettatore, ma lo spettatore queste cose dovrebbe saperle già. E se ha scelto di perseguire un’altra strada, non saranno certo le urla della Dibiasky o del dottor Randall Mindy (Leonardo Dicaprio) a fargli cambiare idea.
Sappiamo bene che il nostro problema non è tanto l’asteroide che arriva dallo spazio ma l’umanità sulla Terra, ma McKay vuole ricordarci anche questo, mettendo sotto accusa pure chi è dalla parte “giusta” della barricata.
Nonostante i suoi difetti, con Melancholia Lars Von Trier scelse una modalità più accattivante, meno trita e più efficace per arrivare al pubblico. Don’t Look Up avrebbe potuto trovare un modo più convincente anziché puntare su una satira scialba e un messaggio reiterato.
Poi, se il film aiuterà davvero a fare qualcosa per il cambiamento climatico, sarò pronto a rimangiarmi ogni parola, ma per il momento resta un bel prodotto d’intrattenimento e poco più.
Alla fine l’unico vero quesito degno di nota è perché il generale Themes abbia fatto pagare l’acqua e gli snack.