L’imminente debutto di Doom Eternal ci dà un pretesto per tornare indietro di trent’anni, alle origini di uno dei più celebri generi videoludici
Se andate a leggere su Wikipedia la pagina dedicata al genere First-person shooter, vi accorgerete che le sue origini risalgono addirittura alla prima metà degli anni Settanta. Molto prima di Doom, e anche di Wolfenstein 3D. Il pioniere fu Maze War, del 1973. In questo rudimentale – a dir poco – FPS, due giocatori (in P2P, ma era possibile persino giocare online) si aggirano in un labirinto con l’obiettivo di eliminarsi a vicenda. Sparando, ovviamente. Poi fu il tempo di MIDI Maze, uscito nel 1987 su Atari ST e pubblicato in seguito su altre piattaforme, fra cui Game Boy, con il nome di Faceball 2000. Di fatto, un Pac-Man in cui si spara. Curiosamente, ma nemmeno troppo, tornava nel titolo la parola “maze” (labirinto, NdR).
Poi entrò in gioco id Software, e il registro cambiò completamente. Fondata ufficialmente nel febbraio del 1991 da John e Adrian Carmack – che non sono imparentati fra loro – e da John Romero (ma merita di essere menzionato anche Tom Hall, che fu costretto a mollare a causa di una lite con John Carmack, proprio in relazione al design di Doom), la software house diede subito un impulso fondamentale al genere, che all’epoca non poteva ancora dirsi tale. Il secondo progetto di id Software fu Hovertank 3D, un FPS a bordo di un tank (ma che non differisce in nulla rispetto agli shooter “appiedati”) in cui il giocatore, nei panni del mercenario Brick Sledged, deve salvare quanti più civili possibile dall’olocausto nucleare, in città popolate anche da mostri e mutanti. Già qui intravediamo qualcosa di Doom, e non mi riferisco solo alle orripilanti creature che si frappongono fra Brick e il suo obiettivo, ma anche e soprattuto al ray casting, una tecnica che, in buona sostanza (non sono un tecnico, perdonatemi, NdR) consente al PC di renderizzare solo ciò che il giocatore può vedere; non è un caso che Hovertank 3D sia decisamente più rapido di altri giochi in prima persona usciti in precedenza (alcuni lo avevano già adoperato prima).
Il passo successivo fu il texture mapping, una tecnica che proietta una o più texture su una superficie, introdotta con Catacomb 3-D nel 1991. L’interesse di id Software per il texture mapping nacque dal lavoro di Blue Sky Productions (in seguito Looking Glass Studios) su Ultima Underworld: The Stygian Abyss, in sviluppo dal maggio del 1990; Carmack, però, fu molto più rapido di Blue Sky, a costo di alcuni compromessi, sicché Catacomb 3-D uscì quattro mesi prima di Ultima Underworld. Finalmente si era conclusa l’era delle vuote pareti monocromatiche! I livelli cominciavano ad avere un aspetto “realistico” (fra mille virgolette, per carità), e il coinvolgimento ne beneficiava, grazie anche alla rappresentazione in primo piano della mano del protagonista (un mago che lancia palle di fuoco), che sarebbe tornata in Wolfenstein 3D, in Doom e in altre centinaia di FPS da quel momento in poi.
Wolfenstein 3D, si diceva. Quello che nell’immaginario collettivo viene spesso indicato come iniziatore del genere. Di fatto era un Catacomb 3-D più veloce, più bello e con le pistole, in cui si sparava ai nazisti occultisti. Perfetto per incarnare il First-person shooter. E poi aveva i push wall, quelle pareti che potevano essere “aperte” rivelando segreti. Si aggiungeva così un altro tassello al mosaico che di lì a poco si sarebbe rivelato essere Doom.
E così siamo arrivati finalmente al nostro protagonista. Doom debuttò nel 1993, un anno dopo Wolfenstein 3D, che veniva così surclassato su ogni versante. In un certo senso, Doom rappresenta il punto di arrivo di quella che potremmo definire la “scuola arcaica” degli FPS; oppure, se preferite, il più antico degli FPS moderni. Sul piano tecnico furono compiuti ingenti passi verso il realismo: oltre alla texturizzazione di soffitti e pavimenti, Doom aggiungeva le variazioni di luce, gli angoli diversi da 90°, i gradini e gli ascensori, superando l’innaturale e opprimente (per un giocatore moderno) piattezza del predecessore.
Sul piano ludico, l’introduzione dei pulsanti, in grado di alterare la morfologia della stanza o di far comparire mostri, portava a un altro livello il concetto di maze, che ha sin dagli albori caratterizzato il genere. Il level design è articolato, ricco di biforcazioni e, tramite le interazioni del giocatore, può rivelare segreti o modificare parzialmente la sua struttura. Funziona talmente bene che è ancora dannatamente divertente. Questa è l’essenza degli FPS anni Novanta, assieme al deathmatch, altra grande novità di Doom che avrebbe profondamente segnato la scena videoludica. Anche prima esisteva qualche gioco che consentiva questo tipo di partita (come il già citato MIDI Maze), ma l’opera di id Software lo rese uno standard. Dal 1994 si cominciò a parlare di “Doom clones” per rappresentare la scena che si sarebbe evoluta in quella degli FPS. Un po’ come è avvenuto per i Souls e i soulslike, anche se non credo che tale sottogenere, pur riconoscendone la rilevanza, possa assumere le proporzioni del fenomeno doomlike.
Il grande successo della nuova ip portò id Software a rilasciare un sequel l’anno successivo, ma in questa sede non ci interessa molto. Doom II è bellissimo, ancor oggi, ma non portò vere e proprie innovazioni, concentrandosi sul level design, sempre più maestoso e articolato. Permanevano tutte le limitazioni palesate dal capostipite della serie: non si può saltare, non si può nemmeno guardare in alto e in basso. Ma, soprattutto, è tridimensionale per finta: i nemici e gli oggetti sono costituiti da sprite presentati da vari punti di vista, per dare l’illusione della tridimensionalità, tanto che spesso si parla di 2.5D. Anche se nel 1995 uscì Descent, che detiene il Guinness World Record per essere stato il primo FPS pienamente tridimensionale, il 2.5D rimase a galla fino al 1996 inoltrato, quando uscì un altro grande gioco di id Software: Quake. Ma questa è un’altra storia…
Quel che rileva in questa sede è che, dopo la release di Quake, Doom ha perso la sua centralità nel genere FPS, ma ciò non valse per i suoi creatori, almeno fino all’uscita di Half-Life nel 1998, che esplorò per primo la dimensione narrativa degli sparatutto in prima persona. E così, quando finalmente Doom 3 vide la luce, nell’agosto del 2004, non poteva più assurgere a punto di riferimento del genere perché Half-Life 2 era già alle porte. Cionondimeno, il terzo Doom fu un gioco importante, come abbiamo già avuto modo di dire in altra sede.
Quel che appariva ovvio è che id Software non era più il leader del suo settore, particolarmente in fermento in quel periodo, non solo per i nuovi nomi emersi negli anni Duemila – da Halo a Crysis, passando per Far Cry, F.E.A.R. e Call of Duty – ma anche per l’affermazione degli FPS su console, avvenuta definitivamente con la settima generazione. Serviva un nuovo Doom in grado di ridefinire il genere.
Forse fu proprio questa pressione a rendere le cose difficili: Doom 4 (di cui potete vedere uno screenshot qui sotto) finì in development hell, e il suo sviluppo ricominciò da zero nel 2011. Il gioco avrebbe in parte seguito le orme del predecessore, configurandosi come una sorta di remake di Doom II con un certo focus sul comparto narrativo, ma non riuscì a prendere forma a causa di una mancanza di identità, che lo faceva apparire come uno scriptatissimo “Call of Doom”.
Poco male, visto che ci ha regalato un gioco del calibro di Doom (quello del 2016, ovviamente). Questo secondo reboot della serie è anche quello vincente, grazie alla capacità di coniugare modernità e vecchia scuola, in un connubio di gameplay frenetico e perfettamente bilanciato e di level design articolato, in grado di valorizzare l’elemento esplorativo, il maze, la cui importanza viene talvolta trasucrata. Più che definire o ridefinire un genere, Doom lo ha ribadito.
In quest’ottica, non ci aspettiamo nulla di sconvolgente dall’imminente Doom Eternal: se tutto va come dovrebbe andare, sarà l’equivalente di Doom II, cioè un grande gioco che va ad espandere le meccaniche viste nel predecessore, senza peraltro introdurre novità significative. Sarà il Doom di nuova generazione a ridefinire il genere? Ne parliamo fra quattro, cinque, sei anni…