L’annuncio del remake di Dead Space è un’occasione per riflettere sull’utilizzo dei talent nel doppiaggio dei videogiochi
Ormai è ufficiale, il primo capitolo di Dead Space riceverà un remake che vedrà la luce nel corso del 2022. Ad annunciarlo è stata Electronic Arts nel corso del suo EA Play Live tenutosi lo scorso 22 luglio. Una dichiarazione che ha entusiasmato i fan, orfani da quasi dieci anni dalle avventure sci-fi in salsa horror di Isaac Clarke, e rilanciato le speranze per un clamoroso ritorno del brand. Magari con l’arrivo di un nuovo capitolo inedito se l’operazione di restauro dovesse generare i profitti sperati. In ogni caso, ci troviamo di fronte a un’operazione commerciale e di “archeologia videoludica”, per quanto recentissima, che ci fornisce l’occasione perfetta per riflettere intorno al tema del coinvolgimento dei cosiddetti talent nel doppiaggio dei videogiochi. Ci riferiamo nello specifico all’uso di celebrità chiamate a prestare la propria voce per la caratterizzazione di personaggi videoludici, senza prestare troppa attenzione all’effettiva competenza o a un’eventuale esperienza pregressa nel settore.
Sono scelte figlie di una precisa idea di marketing che, seppur non diffusissime in quanto a tristi testimonianze, sottolineano la strada che non deve essere percorsa per non scalfire l’identità che il videogioco sta acquisendo (non senza qualche difficoltà) come prodotto culturale a 360 gradi degno di cura e attenzione in ogni suo singolo aspetto. Una creazione emblema dell’ingegno e della creatività umana, che più per confronto che per affinità, si intreccia con la questione dell’uso sempre più frequente di attori digitalizzati in luogo di design originali e il conseguente portato di significati extra-diegetici impossibili da non prendere in esame.
Doppiaggio e talent: alcuni esempi
Riporteremo di seguito una manciata di produzioni AAA che hanno visto, nel corso egli anni, il coinvolgimento di personalità estranee al mondo del doppiaggio professionista per interpretare vocalmente alcuni dei personaggi videoludici in essi presenti.
Partiamo, naturalmente, proprio da Dario Argento e dal primo Dead Space uscito nel lontano 2008. Pubblicato da Electronic Arts e sviluppato da Visceral Games, il titolo in questione è uno dei migliori action-horror in terza persona della storia e, probabilmente, il migliore esponente del macro-genere uscito nel corso della settima generazione. Coinvolgente, dotato di un’atmosfera incredibile e di un ritmo indovinato, è difficile trovargli delle critiche evidenti. Tranne in un aspetto: ovvero, la performance vocale di Dario Argento nel doppiare la versione italiana del personaggio del Dott. Terrence Kyne. Fra problemi di dizione, un marcato accento romanesco e una scarsa, se non nulla, capacità attoriale, la prova di Argento non solo è deprecabile ma a tutti gli effetti dannosa per quanto concerne l’immedesimazione e il crollo della sospensione dell’incredulità, elementi fondamentali per ogni prodotto finzionale che voglia suscitare coinvolgimento e reazioni emotivi nel fruitore.
Altrettanto impattante e scadente, è il lavoro di Gabriel Garko su Prince of Persia – Spirito Guerriero pubblicato da Ubisoft 2004, che sostituisce la voce originale di Domenico Strati nel doppiare il principe protagonista della serie. Una nota curiosa riguarda la scelta, da parte del doppiaggio inglese, di utilizzare Monica Bellucci per interpretare l’affascinante imperatrice Kaileena. Decisione che non è stata replicata per la versione italiana, per la quale è stata invece scelta Giovanna Rapattoni. Un segnale di come certe scelte di marketing coinvolgano più o meno tutti i paesi, comprese le opinabili decisioni dei vari project manager che, illudendosi di aggiungere appeal ai prodotti in questione, danno vita a risultati quantomeno discutibili.
Passiamo poi a Splinter Cell: Pandora Tomorrow, secondo titolo della serie Splinter Cell sempre di Ubisoft, che vede l’ottimo Luca Ward come storica voce di Sam Fisher affiancato al doppiaggio da Marco Castoldi, in arte Morgan, nel ruolo dell’antagonista di turno. E se è vero che la serie, rispetto alla più eccentrica e articolata “rivale” (le virgolette stanno a evidenziare tutte le differenze del caso) Metal Gear Solid, si è concentrata maggiormente sul gameplay lasciando alla narrativa il compito di sorreggere e giustificare le nostre azioni, il confronto e l’ascolto due risultati lascia sbigottiti e con l’amaro in bocca rispetto alle possibilità che altre scelte avrebbero potuto comportare.
Ma, d’altra parte, come riportato dal sito Doppiaggi Italioti, per Marco Caprelli, ex-brand manager per Ubisoft «servivano dei nomi che potessero interessare un target di pubblico oltre il mercato degli appassionati: da una parte, per motivi di vendite e dall’altra, perché un talent garantiva sempre una maggiore attenzione da parte dei media. Di certo non volevamo gli attori, ci interessavano i personaggi. Morgan era un nome in ascesa con delle pretese di budget non eccessive, aveva poi anche una vaga somiglianza col cattivo del gioco, ci parve una scelta sensata».
Il cerchio si chiude, infine, con Asia Argento. Figlia di Dario Argento, attrice e regista, anche lei talent chiamata per prestare la voce al doppiaggio italiano di Faith Connors, protagonista del titolo cult Mirror’s Edge pubblicato nel 2008 (che annata) da Electronic Arts (anche qui, nessuna novità a quanto pare). Un lavoro probabilmente superiore rispetto a quello offerto dal padre in Dead Space, complice anche la differente professione, ma distante dal potersi definire riuscito e all’altezza del compito richiesto. Aspetti criticati aspramente anche da critica e pubblico, che non mancarono nelle varie sedi di sottolinearne i limiti espressivi e la dose di pigrizia interpretativa che hanno caratterizzato il suo lavoro.
È tutto sbagliato? Sì (almeno quasi sempre)
Accantonando in questa sede l’infinito dibattito teorico-pratico sulla validità e necessità del doppiaggio in quanto tale, è palese che, accettando invece la sua esistenza come un qualcosa di fattuale ed evidenziandone le competenze artistico-creative coinvolte nella sua realizzazione, un buon doppiaggio sia meglio di un cattivo doppiaggio. Sembra una frase fatta, scontata e banale. In realtà, nella sua radice comunicativa essenziale, ha lo scopo di invitare caldamente di non smettere mai di proiettarsi analiticamente nei confronti delle maestranze che convergono in uno stesso punto quando si tratta di avvicinarsi e gestire criticamente a un prodotto culturale. Con tutte le sfumature autoriale che possiamo trovarvi o che voglia possedere e/o manifestare.
Un buon doppiaggio, insomma, partecipa a rendere un buon videogioco un ottimo videogioco. È lampante. E, anche se non è strettamente vero il contrario (cioè che un cattivo doppiaggio rende un buon videogioco un pessimo videogioco), è pacifico che se fatto con maestria, migliora l’esperienza complessiva. Anzi, nei casi in cui la realizzazione tecnica lo permette (un esempio fra gli ultimi, The Last of Us – Parte II), arriva a porsi in diretta concorrenza con le migliori esperienze che le vette del cinema o della televisioni ci hanno offerto e continuano a offrirci. Perché l’immersività passa anche attraverso la sintesi audio-visiva che ci troviamo di fronte e se uno degli elementi che la compongono deficita in qualcosa, ecco che ci rendiamo conto che il doppiaggio è un elemento fondamentale, che diviene imprescindibile in tutti quei casi in cui si vuole arrivare a creare impianti narrativi complessi e stratificati. O anche avventura che fanno del racconto oralizzato uno strumento per trascinare l’utente all’interno di un mondo finzionale del tutto virtuale e perciò ancora più impossibilitato a far leva su aspetti intersemiotici che altri medium possiedono.
Ed ecco perché l’uso di talent nel doppiaggio dei videogiochi al posto di figure professionali formate ed educate per svolgere questo lavoro al meglio (i quali, tra l’altro sono, non per importanza, gli ultimi rappresentanti di una filiale industriale che coinvolge centinaia di figure differenti in un processo dispendioso ed estremamente complesso) dovrebbe essere scongiurato o limitato per quanto possibile. Lasciare il campo a bizzarre scelte commerciali, laddove è palese che tutti gli esempi prima riportati non rispondano ad altro se non a distorte percezioni del mercato e ad azioni intraprese nel maldestro tentativo di allargarlo, ingenerano soltanto grigi risultati che vanno a cozzare con la crescita che videogioco sta attraversando. Dal momento in cui esso si presenta (ed esige in molti casi di essere considerato tale) in quanto medium polisemico e strumento privilegiato per esplorare i mondi altri che vedremo nascere da qui in avanti.
Perché se è vero, e sarebbe irragionevole far finta di niente, che a orientare e influenzare quest’arte è un semplicistico calcolo matematico che ragiona in termini di costi e di benefici e che, anche nei più inquietanti esiti, spende dove sa di poter ricevere, similmente, occorrerebbe anche rivedere la destinazione che l’intero settore sta raggiungendo per ricalibrarne gli esiti e partorire nuove possibilità ludiche ed esperienziali. Va da sé anche per avere videogiochi con un doppiaggio magistrale, senza la necessità di radunare talent di alcun tipo.