Con Dr. Strange nel Multiverso della Follia, il Marvel Cinematic Universe e Sam Raimi tornano a stupire
l primo brivido di Dr. Strange nel Multiverso della Follia con Dr. Strange nel Multiverso della Follia non ha molto a che vedere. Una volta seduti in sala in occasione dell’anteprima, a scorrere per primi sullo schermo sono stati una manciata di secondi di teaser trailer da batticuore per Avatar 2 – The Way of Water, curiosamente visionati con un occhialino 3D che sa di vintage ma che tuttavia davvero poco aggiungono alle immagini rilasciate nei giorni addietro. Appuntamento rimandato.
Ora, il secondo brivido: quello legato alla domanda, in realtà più un timore, che faceva stringere i denti al pensare quanto Sam Raimi ci sarebbe stato in questo capitolo Marvel qui. Insomma, che faceva chiedersi se il trend corrente fosse quello imboccato da Chloé Zhao con Eternals, dove la cineasta premio Oscar faceva capolino tra qui e lì ma si perdeva poi in un ambizioso racconto dalla portata cosmica che finiva per girare un po’ a vuoto e sgonfiarsi come un palloncino.
Ebbene, cari fan tutti, del regista o della Marvel, di supereroi o dell’horror, accomodatevi, sedetevi pure voi, perché Dr. Strange nel Multiverso della Follia è probabilmente il film a targa Marvel Studios più completo e affascinante dai tempi di Infinity War (o volendo, Endgame). Dopotutto il corso fino ad ora abbastanza fiacco della Fase 4 indubbiamente aiuta, ma il secondo incontro a tu per tu con lo stregone Stephen Strange di Benedict Cumberbatch è l’opera visivamente più libera, meno imposta e impostata tra le recenti, e tutte, del MCU.
A dire il vero nei primi 20-25 minuti ci si domanda con un po’ di ansia se sia tutto lì tutto quello che c’è da aspettarsi. Ok, su script di Michael Waldron (che già aveva curato Loki) assaporiamo un po’ di multiverso, un po’ di mostri che da lì fuoriescono e la mano di Raimi che lascia una timida impronta nel tagliare tentacoli e strappare occhi giganti. C’è poi la consueta tendenza di prendere un tantino troppo per mano nel condurre tra le molte stradine di un cosmo ogni volta più intricato, dove troviamo il Dr. Strange farsi i fatti suoi al matrimonio della sempre e per sempre amata Christine (Rachel McAdams) dopo che lo avevamo lasciato alle prese con il casino combinato assieme a Peter Parker in Spider-Man: No Way Home.
Piomba dal nulla anche la America Chavez della classe 2006 Xochitl Gomez (sulla quale invito a interrogarvi su quanti anni avesse ai tempi di Iron Man, primo film MCU) con tanto di spilletta LGBTQIA+ appuntata sul giacchetto, nel pieno solco di quello sforzo programmatico che detta la linea di un costante ricambio generazionale a livello di immagine marketing e pantheon supereroistico. Ha l’abilità di viaggiare attraverso i vari universi ma non la capacità di controllare questo potere, a quanto pare tanto ambito da qualcuno che la bracca tra i tessuti dello spaziotempo e per questo in cerca di aiuto. C’è poi qualche frasone di circostanza («Nel grande calcolo del multiverso il tuo sacrificio vale più della tua vita»), la creazione di un’ostilità interna che vede la Scarlet Witch di Elizabeth Olsen volere qualcosa che non può ottenere, altri scontri. Tutto nei canoni, il brivido pare farsi conferma.
Ma poi, a un certo punto, Dr. Strange nel Multiverso della Follia impenna. E impenna vistosamente, nonostante in una prima frazione sembri risolversi con gusto ristretto e uniformato a un tipo di messa in scena che conosciamo ormai troppo bene. Mantiene la linea che detta all’inizio e allo stesso tempo scarta, appoggiandosi in tutto e per tutto, ancora in un’occasione, all’elaborazione di un trauma che i supereroi di casa Marvel si trascinano dietro dai tempi del Blip, tema perenne e ricorrente a praticamente tutti i prodotti cinematografici e seriali del post Endgame.
In particolare è proprio Wanda ad affrontare uno dei processi di accettazione più dolorosi e meglio sfumati di tutto l’MCU (e alla faccia di una continuity narrativa dove si diceva che le serie non sarebbero state indispensabili…), che mette di fronte a quali conseguenze può avere il doversi rapportare a un essere dai poteri sconfinati la cui mente però cade a pezzi un frammento dopo l’altro. Un tormento a metà tra il lutto e una genitorialità impossibile che la Olsen, non che sia una novità, incarna al millimetro e soprattutto attorno alla quale Raimi costruisce un film dove la sua firma si riconosce e dove trova gli spunti per farsi valore aggiunto.
Nel titolo ci sarà infatti anche il nome di Dr. Strange, ma è indubbio che il regista vada a nozze con le atmosfere e le inquietudini di questa strega uscita dai ranghi del senno. Con lei, con le sue apparizioni – o meglio infestazioni – trova il terreno per farsi largo nelle maglie di un film che mantiene l’ovvio rating di pellicola adatta a tutti ma dove, e per davvero, si insinua per la prima volta l’ombra di un genere come l’horror che sembrava apparentemente inconciliabile con la linea Marvel Studios. E Raimi lo si riconosce nei giochi di spazi chiusi e labirintici corridoi, negli angoli di buio che celano cose che non si vogliono vedere e in una macchina da presa che invece si spinge e si attacca alle bizzarrie e agli orrori di un multiverso denso più che mai. Fa tutto questo a modo suo, con quel gusto recuperato da film che sfiora in alcuni tratti una ricercata serie B, semplice e di mestiere e per questo a braccetto con i momenti in cui ci si deve lasciare andare alla leggerezza mentre l’orologio dei grandi eventi scorre in avanti.
Non dovete aspettarvi splatter gratuito e fiotti di sangue, ma dovete aspettarvi in misura maggiore rispetto a quella che credete alcune pulsioni anche ironiche da Evil Dead e le dannazioni di un Drag Me to Hell. Con annessi, magari, un paio di saltini sulla sedia e un po’ di apprensione per quello che state guardando che ben mitigano e si amalgamano a una linea del racconto di fondo semplice e il cui scopo sotterraneo, industriale, resta l’evolvere di un macroargomento con l’aggiunta a ogni rintocco di un nuovo tassello. Che non è poco, visto e considerato una linea recente abbastanza compromissoria dove l’emozione stava tutta nella costruzione del crossover e nel foraggiare la cultura dell’hype, alla quale anche qui, come ormai di norma, è concesso di prendersi uno spazio giostrato però con meno enfasi e anche un pizzico di macabra autoironia.
Dr. Strange nel Multiverso della Follia è quindi la migliore soluzione possibile nell’incontro tra un universo ben codificato e un autore cinematografico dall’impronta ben riconoscibile. Ne esce arricchito l’MCU che sperimenta all’interno del proprio recinto nuove dimensioni espressive, e ne esce vincitore Sam Raimi, che nel tornare in seno a una major dopo aver riscritto il cinecomic nei primi anni duemila non stecca, ma anzi rialza l’asticella.